Lilac di Alessia Esse – capitolo 4

Da Thefreak @TheFreak_ITA

Il giorno dopo, mia nonna ed io siamo le prime ad arrivare al liceo di Malorai. L’edificio della scuola si trova al centro della città, alla destra della piazza rettangolare che vede, sugli altri tre lati disponibili, il palazzo del comune e quello delle Scuole di Base. Il liceo può ospitare al massimo cento studentesse. La mia classe, quella che oggi si diplomerà in Storia Moderna, conta ventotto allieve.

La nonna ferma la sua biposto nel parcheggio al centro della piazza, e mi osserva con emozione prima di scendere. Quando mi ha vista uscire dalla mia camera, questa mattina, col vestito nuovo di zecca, il trucco leggero e i capelli ben pettinati, i suoi occhi sono diventati lucidi. Gli stessi occhi commossi appaiono ora mentre, con estrema delicatezza, scosta uno dei boccoli dal mio viso.

“Sei bellissima, Lilac.” Si ferma, prende fiato. “Somigli così tanto a tua madre.”

Mia madre è morta dandomi alla luce. Sono passai quasi diciotto anni da quel giorno. Il suo nome era Irene, e da meno di un anno insegnava lingue pre-moderne nel liceo in cui ho studiato negli ultimi cinque anni. Di lei mi rimangono le foto, qualche vestito, e un vecchio
ciondolo a forma di lillà. Fu lei a scegliere il mio nome, ancor prima che nascessi. Lilac, come l’amore che provava nei miei confronti.

“Sarebbe felice, oggi,” dico a mia nonna. “Se mi vedesse qui, se sapesse che sto per diplomarmi.”

“Puoi giurarci, bambina. Irene sarebbe la prima a fare il tifo per te.”

Non sono poche le complicazioni derivanti dal nuovo tipo di procreazione. Usare il proprio midollo osseo è ciò che ha permesso alle donne di non estinguersi, ma spesso la gravidanza sfocia nella morte della madre e, a volte, anche nella morte della figlia. Io sono
sopravvissuta. La sorella di Baguette, assieme a sua madre, non ce l’ha fatta. Negli ultimi anni la mortalità è diminuita, ma essa rimane comunque una possibilità con cui tutte le donne imparano a convivere fin dall’infanzia. Vuoi procreare? Dovrai farlo da sola, perché
gli uomini non esistono più, e durante il parto ci sono buone probabilità che tu e tua figlia muoiate.

Io sono cresciuta con mia nonna, e grazie a lei ho vissuto nel benessere, nella tranquilla e serena Malorai. Nonostante questo, però, a volte mi fermo a pensare a come sarebbe stata la mia vita se nella nostra casa fossimo state in tre. Se avessi avuto anch’io una
madre, come Baguette ha avuto la sua per dodici anni. Sarei la persona che sono adesso?
Avrei fatto le stesse scelte? E mia nonna si sarebbe sentita meno sola? La Sindrome le ha portato via tutto. Anche la figlia che aveva dato alla luce nel primo mese del Periodo Buio.

“Andiamo,” dice mia nonna, risvegliandomi dai miei pensieri. “Fra un po’ arriveranno anche le tue amiche. Voglio salutare le tue insegnanti e conquistarmi un posto in prima fila.”

“Sono certa che una sedia col tuo nome su c’è già,” le dico mentre camminiamo verso l’edificio. “Sei o non sei la nonna dell’oratrice ufficiale della cerimonia?”

Annuisce con un gesto regale, sistemando la stola rossa sul vestito grigio, lungo fino al ginocchio, creato col suo cilindro.

All’ingresso della scuola troviamo ad attenderci la professoressa Kilstrom, la preside della scuola, nonché la responsabile per il corso di Storia Moderna. E’ una donna di mezza età, bassa ed esile. I capelli biondi sono pettinati nel solito caschetto liscio. Al suo fianco, con
addosso un vaporoso vestito color nocciola, la sua compagna da una vita, la professoressa Sener, che insegna nel corso di Scienze Applicate.

La Kilstrom ci viene incontro sorridendo. “Lilac, Francesca.”

“Maya.” Mia nonna e la Kilstrom (io non sono mai stata a mio agio nel chiamarla per nome) si salutano con un bacio sulla guancia. “Siamo in anticipo, vero?”

“Sì, ma credo che abbiate fatto bene ad arrivare prima delle altre. Ho appena avuto notizia dal corteo di sicurezza della Presidentessa. E’ a quaranta km da Malorai, per cui arriverà proprio pochi minuti prima dell’inizio della cerimonia. Sarebbe un peccato perdersi il suo
arrivo, non credete?”

La professoressa Sener ci raggiunge in tempo per cogliere le ultime parole della moglie. “Il corteo di sicurezza conta quattro auto,” dice annuendo. “Probabilmente chiuderanno la piazza. Alla Presidentessa non piace la folla.”

La Kilstrom appoggia una mano alla base della schiena dell’altra. La introduce a mia nonna, e mentre le due parlano io ripenso alle parole della Sener: alla Presidentessa Vega non piace la folla. E’ così, infatti: Vega G. rifiuta sempre di apparire nelle manifestazioni
pubbliche a cui viene invitata, limitandosi a visitare i luoghi in cui si tengono solo le celebrazioni più importanti. L’anniversario dalla nascita dell’USP, la costituzione di una nuova piccola città, la presentazione di un nuovo medicinale migliora-vita: sono queste
le occasioni a disposizione della gente per vederla da vicino. Per il resto del tempo, la Presidentessa viaggia nel mondo per discutere della gestione dei governi con le altre rappresentanti dell’USP sparse nei vari continenti, e si occupa di mantenere salde le redini
del nostro mondo. E’ vero, non ama la folla. Non ama apparire in pubblico. E, nonostante mai nessuno le abbia fatto del male, ama farsi accompagnare da una decina di guardie personali. Tuttavia, ha deciso che oggi sarà qui, nella mia piccola Malorai.

“Lilac, bambina.” La nonna mi scuote con garbo, appoggiando una mano sulla mia spalla. La Kilstrom e la Sener sono scomparse; ci siamo solo noi nell’atrio del liceo.

“Le tue insegnanti sono andate ad accogliere le altre ragazze. Sono molto orgogliose di te, sai?” Si avvicina per darmi un bacio sulla guancia e per abbracciarmi, e le sue braccia morbide mi avvolgono come se fossi una bambina di pochi mesi, bisognosa di protezione.

“C’è spazio anche per me in questo abbraccio?”

La voce di Baguette mi sorprende alle spalle, e quando mi giro per accoglierla rimango letteralmente a bocca aperta. In diciassette anni non ho mai visto la mia amica così elegante. Indossa un paio di pantaloni aderenti, neri e lucidi, e una camicia a maniche
corte, arricciata in corrispondenza del collo e delle spalle. Il colore del tessuto semi trasparente è un rosa pallido, uno dei suoi preferiti. I capelli, perennemente sciolti, sono oggi legati in una coda alta, che mette in risalto il suo viso tondo e delicato.

“Certo che sì,” dico con un nodo alla gola, rispondendo alla sua domanda. L’abbraccio con forza, riempiendomi le narici del suo profumo frizzante. “Sei venuta,” le dico quando mi allontano.

“Pensavi davvero che ti dessi buca, Lilac?” Mi indica con il pollice, voltandosi verso mia nonna. “Scarsa fiducia, questa qui. Scarsa fiducia.” La nonna ride di gusto mentre l’abbraccia, facendole i complimenti per il suo completo. “Fatto a mano,” dice Baguette,
sorridendo estasiata. Fa un doppio giro su se stessa prima di improvvisare un inchino. “Sia i pantaloni che la camicia. La borsa e le scarpe erano di mia madre: Juliette Riford aveva stile.”

“Tua madre aveva stile da vendere,” dice mia nonna, prendendo la mano di Baguette fra le sue. “E sarebbe stata felice di saperti qui con Lilac, oggi. Diplomata,” aggiunge, ponendo l’accento sull’ultima parola. Baguette lancia gli occhi al cielo, sapendo che nei prossimi
minuti mia nonna cercherà in ogni modo di convincerla a riprendere gli studi, premendo sull’importanza della cultura e sulle poche opportunità felici che il suo lavoro di assistente alle anziane potrà darle in futuro.

Quando il battibecco fra le due è terminato (con mia nonna che si arrende al sarcasmo di Baguette, come al solito), l’atrio del liceo è pieno per metà. Le mie compagne di corso sono arrivate, assieme alle madri, alle sorelle, amiche, fidanzate, cugine, zie, nonne: l’intera città
è qui, e chi non festeggia una delle ragazze diplomate ha raggiunto la piazza per l’altro avvenimento della giornata, l’arrivo della Presidentessa.

“Sei emozionata?” chiede Baguette, intrecciando le dita della mano con le mie.

“Un po’.”

“Bugiarda,” ribatte lei. “Sei terrorizzata. Andrà bene,” dice con convinzione. La stessa convinzione che vorrei avere io. “Vedila in questo modo, Lilac: il 90% delle donne presenti è qui per Vega G. Tu sarai solo una delle ragazze che legge il discorso. Nulla di più.” I suoi
occhi privi di trucco – Baguette lo detesta – mi sorridono.

“E questo dovrebbe darmi sicurezza?”

“In teoria sì,” risponde lei. “In pratica, se una volta sul palco dovessi dimenticare le parole o perdere la voce, resta calma e guarda verso di me.”

“Verso di te?” domando.

Baguette annuisce, stringendo le sue dita alle mie. “Grazie al tuo costante e, diciamocelo, noioso bisogno di ripetere, ripetere e ripetere, ho memorizzato l’intero discorso. E’ tutto qui,” dice, picchiettandosi la tempia destra. “Incluse le modifiche di cui mi hai parlato ieri.
Potrei recitarlo al tuo posto, volendo.”

Dietro il suo sorriso scherzoso c’è la verità. Dietro i suoi occhi verdi, luminosi e sinceri, c’è la mia migliore amica. L’unica persona in grado di tranquillizzarmi. Forse più di mia nonna.

“Nel caso in cui ti deconcentrassi, o nel caso in cui la brutta faccia di Vega G. ti facesse un brutto effetto, guarda verso di me. Sarò in prima fila ad aiutarti.”

“Grazie,” è tutto ciò che riesco a dirle. Ho il cuore in gola, e non so spiegarne il motivo. Mi limito a guardarla e a sorriderle.

Vorrei aggiungere altro. Vorrei dirle che sono felice di condividere questo giorno così importante non solo con mia nonna, ma anche con lei. Vorrei dirle, anzi chiederle, di continuare a stringermi la mano.

Ma il frastuono che proviene dall’esterno interrompe i miei pensieri, e le voci delle presenti.

La Presidentessa è qui.

Il corteo della Presidentessa Vega G. consiste in quattro auto, proprio come aveva annunciato la moglie della Kilstrom. Si tratta di vetture grandi, quadriposto, più alte delle normali biposto, e con i vetri oscurati. Le auto si posizionano al centro della piazza, fermandosi una accanto all’altra. Gli sportelli si aprono tutti nello stesso momento, come se fossero collegati ad un interruttore magico. Da ogni vettura escono tre donne, per un
totale di dodici guardie personali. Indossano un vestito nero e aderente, lungo fino al ginocchio, e un cappello-cuffia dello stesso colore sui capelli raccolti sul collo. E’ la loro divisa, e si dice che sia stata la stessa Presidentessa a progettarla.

Quattro donne, le autiste, rimangono nelle auto mentre le altre si muovono con eleganza e con rapidità, per agevolare l’uscita dall’auto di Vega G. Dieci di loro si sparpagliano nella piazza, occupando i tre lati, e due camminano fino a raggiungere la terza auto nera, quella
che porta sugli sportelli il simbolo dell’USP, la fiamma rosa sul fondo bianco. E’ l’auto di Vega G.

Le due guardie personali restano ferme mentre lo sportello posteriore si apre, ed è in quel momento, quando il clic del metallo riecheggia nella piazza, che mi rendo conto del fatto che l’intera scuola sta trattenendo il fiato in attesa dell’apparizione della Presidentessa. La nonna è al mio fianco, gli occhi puntati sull’auto e la mano sinistra sulla mia spalla. Perfino Baguette è attenta e silenziosa.

Ancor prima di vedere il volto della Presidentessa, vedo le sue lunghe gambe. Appoggia entrambi i piedi sul gradino prima di allungare una mano verso una delle guardie che, prontamente, l’aiuta a scendere dalla vettura. E in quel momento le donne presenti esplodono in un applauso gioioso, come se l’attesa di questi minuti sia stata ampiamente ripagata dall’apparizione di Vega G. La nostra Presidentessa è una donna non più giovane,
ma ciononostante il suo aspetto è quello di una donna attraente e scattante. La chirurgia estetica e le pillole l’hanno sicuramente aiutata a nascondere le rughe, i capelli bianchi e i vari decenni che, altrimenti, la farebbero somigliare a mia nonna, invece che ad una delle
mie giovani insegnanti. Nessuno conosce la sua età precisa; nei libri in cui ho studiato la sua storia si ipotizza che sia nata intorno agli anni Novanta, ma non esistono certezze al riguardo. Vega G è una donna molto riservata.

Con accanto le due guardie, Vega G. cammina verso l’ingresso del liceo guardando a destra e a sinistra, salutando le allieve e le insegnanti agitando le mani. Indossa un vestito verde, con le spalline appuntite e un piccolo spacco sul davanti. Non ha una borsa, non la usa
mai, e le mani sono coperte da piccoli guanti dello stesso colore del vestito. Le scarpe consistono in un paio di stivaletti che arrivano fino alla caviglia, di un rosso acceso come il rossetto che ha sulle labbra. I capelli, biondi fin quasi a sembrare trasparenti, sono
pettinati in un caschetto immobile. Il vento leggero che accompagna il tiepido sole di Giugno muove gli alberi finti e i vestiti, ma non l’acconciatura della Presidentessa.

“Non riesce neppure a sorridere,” sussurra Baguette al mio fianco. Lo fa a bassa voce, ma mia nonna riesce ugualmente a sentirla. “E’ di plastica.”

“Margot.” La nonna le lancia un’occhiataccia delle sue per riportarla all’ordine, e Baguette raddrizza le spalle e prende ad agitare la mano come fanno tutte, per salutare la Presidentessa. Il suo sorriso è finto, e anche se non dovrei, lo trovo divertente.

Vega G. raggiunge la preside e le stringe la mano. Continua ad indossare gli occhiali scuri che le fasciano metà del viso mentre parla alla Kilstrom e ad un gruppo di insegnanti che si sono avvicinate. Le guardie sono immobili, i volti pietrificati e privi di alcuna espressione. A
vederle così, sembrano tutte uguali.

Oggi non esistono più poiché non ci sono più guerre, ma le guardie di Vega G. sono la cosa più vicina ai soldati che abbiamo a questo mondo. Non indossano armi, ma c’è chi dice che portino con loro una pistola, o un coltello. La Vecchia sostiene che siano loro stesse
un’arma.

Vega G. si guarda attorno mentre la Kilstrom le sta ancora parlando, ed è in quel momento che si libera degli occhiali fascianti. E’ in quel momento che, fra i saluti e le parole di ammirazione delle presenti, i suoi occhi neri si appoggiano su di me. La preside segue lo sguardo della Presidentessa, e sorride quando capisce cosa, o meglio chi, sta guardando.

Me.

Vega G. s’incammina verso di noi, seguita dalla preside e dalle insegnanti. Gli occhi di tutte le ragazze si girano nella mia direzione, e la mano di mia nonna stringe con vigore la mia spalla.

“Lilac Zinna.” La Presidentessa parla prima di raggiungermi, fermandosi a pochi passi da me, mia nonna e Baguette. Per la prima volta da quando è arrivata, Vega G. sorride. I suoi denti sono bianchi come la neve, e i suoi occhi neri sono cerchiati dal trucco rosso. “L’oratrice ufficiale,” aggiunge. Autorità, rigore, fermezza. Ecco cosa mi trasmette la sua voce.

“Proprio così, Presidentessa,” dice la Kilstrom. “Lilac ha preparato il discorso per la celebrazione di oggi. E’ una delle nostre migliori allieve, siamo tutte emozionate all’idea di ascoltare le sue parole.” La preside mi guarda come per dire ‘Beh, Lilac, aggiungi qualcosa’,
ma io mi sento di marmo. E’ il gesto invisibile di mia nonna, una stretta sulla spalla, a ricordarmi come si fa a parlare.

“Presidentessa Vega, è un’onore conoscerla.” Allungo la mano per stringere la sua, e con un gesto rapido il guanto verde si chiude attorno alle mie dita gelide.

“L’onore è mio, Lilac,” dice lei. “So già che il tuo discorso sarà importante,” aggiunge. “Lo leggo nei tuoi occhi.”

Le donne che si trovano attorno a noi sono in silenzio. Osservano me, ma soprattutto osservano lei, alta e regale nel suo vestito geometrico. Dal mio viso, gli occhi di Vega G. si spostano alla mia destra, verso mia nonna.

“Francesca Zinna. La nonna.” Vega G. lascia la mia mano per prendere quella di mia nonna, che si fa trovare pronta in una delle sue strette d’acciaio.

“Presidentessa. Grazie per essere qui,” è tutto ciò che la nonna dice.

“La dottoressa Zinna è uno dei pilastri di Malorai,” dice la preside. “Lilac non avrebbe potuto avere radici migliori.”

La Presidentessa sembra ignorare le sue parole. Continua a guardare negli occhi la nonna prima di voltarsi verso di me. “Tua madre non è con noi, Lilac. Irene era il suo nome, vero?”

Vorrei sapere come fa a conoscere tutte queste cose sul mio conto. Vorrei sapere se conosce nomi e storie di tutte le ragazze presenti. Vorrei chiedere alla nonna di smetterla di stringermi la spalla come sta facendo.

“Sì,” è quello che riesco a dire. “Sì chiamava Irene. E’ morta quando sono nata.”

Vega G. annuisce, abbassando lo sguardo e prendendo la mia mano fra le sue. E’ un gesto insolito, il suo. La nostra presidentessa è conosciuta per i suoi atteggiamenti posati, quasi distaccati. Adesso, però, stringe la mia mano con un calore di cui, lo ammetto, non pensavo fosse capace.

“Andiamo a renderla orgogliosa, allora. Fammi strada, Lilac Zinna. Non vedo l’ora di vedervi tutte diplomate.”

(capitolo 1-2-3)

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