Lilac di Alessia Esse -capitolo 7

Creato il 13 settembre 2012 da Thefreak @TheFreak_ITA

 “E’ questo il luogo più bello del mondo?” chiedo quando ci ritroviamo, pochi minuti dopo, davanti casa della Vecchia.

Baguette annuisce. “Mi hai detto mille volte che avrei dovuto smetterla con gli oggetti proibiti, ma non è semplice come sembra, e voglio mostrarti il perché.” Quando resto in silenzio aggiunge: “E sì, il perché è fra quelle mura. Andiamo, entreremo dal garage sul retro.”

Dovrei rifiutare. Entrare nel santuario proibito della Vecchia? Io, Lilac Zinna?

Invece la seguo, imitando il suo passo svelto e guardandomi attorno come se potessi essere seguita. Ma nella tiepida estate di Malorai tutto tace.

Il garage della Vecchia è protetto da una porta metallica gialla e quando Baguette la apre, a colpirmi è l’odore. Un odore di chiuso, un odore di vecchio. La seconda cosa che mi colpisce è ciò che si trova al centro del garage: un’auto. Non una biposto, bensì una vecchia automobile, una di quelle che uomini e donne utilizzavano prima della Sindrome. E’ nera, ha quattro sportelli, ed è lunga il doppio della mia piccola biposto. Il vano anteriore che contiene il motore è aperto, e Baguette lo indica con la mano.

“Ci sto lavorando,” dice. “E’ il mio nuovo progetto del mese.”

“Il tuo nuovo progetto?” Sul pavimento del garage c’è una cassetta piena di attrezzi. Accanto ad essa ci sono bulloni, cacciaviti, stracci sporchi.

“Sto provando a convertire il motore di questa Fiat,” dice Baguette, indicando il pezzo più grande incastonato nel vano scuro. “Voglio installare un motore ad aria su questa automobile.”

“E’ possibile?” domando, piegandomi per osservare da vicino il motore della vecchia auto.

“In teoria sì,” risponde Baguette. “Stanotte smonterò il vecchio motore e installerò questo,” dice, prendendo da un tavolo il motore ad aria che conosco bene. E’ grande quanto una mano, e permette alle nostre biposto di viaggiare, visto che il petrolio è finito da un pezzo, e con esso la benzina. “Non riesco ancora a capire come facessero prima, con questi aggeggi ingombranti e inquinanti,” dice, indicando il motore della Fiat. “Erano pesanti, complicati da far funzionare, ed estremamente delicati. Per non parlare del costo del carburante che serviva per far lavorare il motore. Assurdo. Questa è la perfezione,” dice, muovendo il motore ad aria fra le dita. “Leggero, pulito, indistruttibile. Fra i libri della Vecchia ho trovato il primo prototipo di automobile ad aria. Era alimentata con aria compressa, invece che con aria circolante come adesso, e quando usciva dai serbatoi, l’aria era talmente fredda da ghiacciare il motore. Ogni auto non poteva viaggiare per più di dieci minuti, prima che il proprietario avesse bisogno di scendere e sghiacciare tutto.”

“Wow,” è tutto quello che riesco a dire. “Non sapevo che ti intendessi di ingegneria meccanica.” So che ha numerose passioni, quasi tutte illegali, ma non avevo idea che si intendesse anche di motori. “Dove hai imparato?”

“La Vecchia ha un mucchio di libri e riviste che parlano di auto,” risponde. “Un giorno ho portato qui la mia biposto, ho smontato il motore, l’ho messo a confronto con questo, e ho pensato di provare. E poi ho il sangue di Juliette Riford nelle vene, non scordartelo”.

“Tua madre era un tecnico informatico,” dico sorridendo.

“Tecnico informatico, meccanico: non c’è molta differenza. Sono cresciuta guardando lei che montava e smontava apparecchi, telefoni, tablet. Qualcosa l’ho imparata.”

“E si vede. Cosa pensi di fare quando avrai convertito il motore?” dico indicando l’auto. “Tu hai già una biposto.” Utilizzare le vecchie auto non è vietato dalle direttive, e forse è per questo che non mi sento a disagio nel parlarne con Baguette.

“Non lo faccio per avere una macchina in più,” dice lei. “E’ per la sfida, Lilac. La sfida.”

“La sfida.”

“La sfida,” ripete. “Fra vecchio e nuovo, fra passato e presente.”

“E tu fai il tifo per il vecchio. Per il passato,” dico. Mi appoggio allo sportello dell’auto in attesa della sua risposta.

“No. Io faccio il tifo per entrambi. E’ bello unire la tecnologia di oggi alle cose di ieri. E’ quella, per me, la sfida.”

Abbasso lo sguardo, riflettendo. “Mi dispiace per il tuo iPod,” dico in un sussurro. “Non sapevo che fosse di Juliette.”

“Non importa,” dice lei scrollando le spalle. “Era un modello molto vecchio, la batteria era a pezzi. Era destinato a morire. Le canzoni, però, sono ancora sul mio tablet. Alla Vecchia non mancano i lettori, ne prenderò uno dalla sua collezione. Non guardarmi così,” aggiunge velocemente. “Prometto che lo userò solo al chiuso, lontano dagli occhi delle guardie di Vega G.” Finisce di parlare con la mano sinistra appoggiata sul cuore e il capo inclinato verso l’alto. “Prometto solennemente.”

“Dovrai stare attenta, Baguette. Per favore.”

“Lo so,” risponde, abbandonando l’aria scherzosa. “Lo so.”

Mi guardo attorno. Il piccolo garage contiene molta roba. Una parete è interamente occupata da alti scaffali, sui quali sono appoggiate scatole di metallo. Sul lato visibile delle scatole c’è un’etichetta, e ogni etichetta riporta una data.

“Sono le prime pagine dei quotidiani,” dice Baguette. “La più antica risale a centocinquant’anni prima della Sindrome.”

“Centocinquanta? Davvero?” Mi avvicino alle scatole e ne sfioro il lato con la punta delle dita. Leggo mentalmente le etichette. 1943-1953, 1933-1943 e così via. “E’ un archivio immenso,” dico, allontanandomi per osservare la parte superiore dello scaffale. La biblioteca di Malorai possiede un modesto archivio storico, comprese le prime pagine più importanti della storia moderna e pre-moderna, e due anni fa, in occasione di una gita a Parigi con la nonna, ho visitato il museo di Storia moderna, ricco di reperti risalenti all’epoca precedente alla Sindrome. A Parigi, così in come ogni museo storico del mondo, ogni reperto è stato approvato dall’USP. Dubito che l’archivio della Vecchia abbia superato la censura del governo.

“Andiamo di sopra. Ti faccio vedere il resto.”

“Di sopra? Il resto? Baguette, è tardi,” dico guardando l’orologio. “Io non posso-”

“Andiamo,” dice allungando la mano verso di me. “Tutti sanno che la casa di Rose è un covo di cose proibite, eppure nessuno le ha mai fatto nulla.”

“Perché?”

“Non ne ho idea, ma una cosa è certa: le guardie dormono a quest’ora. Andiamo,” ripete, e stavolta la seguo. La porta che si trova accanto ad uno scaffale conduce alla casa vera e propria. “La Vecchia dov’è?” domando a bassa voce mentre saliamo una piccola rampa di scale.

“Dorme,” risponde Baguette, spegnendo le luci del garage per accendere quelle della casa.

Salgo i gradini con il cuore in gola, guardandomi attorno. Lì dove la mia casa è un tempio del bianco e dell’ordine, quella della Vecchia è un bazar ricco di mensole, scatole, ripiani, gingilli, quadri e poster. Non so dove guardare. Non so a cosa dare la precedenza.

“E’ successo anche a me quando sono entrata per la prima volta,” dice Baguette. “Sono qui da quasi un anno e non ho ancora visto tutto.”

Ci ritroviamo all’ingresso, la porta della casa è di fronte a noi. A destra e a sinistra ci sono due stanze. Baguette cammina in quella a sinistra. Un grosso lampadario appeso al soffitto illumina pallidamente ciò che ci circonda, e per questo la mia amica accende anche tre lampade.

“Questo è il salone, altrimenti conosciuto come Il Paradiso.”

Per lei lo è, ne sono certa.

La stanza è piena di oggetti proibiti, ad iniziare dai quadri e dai poster appesi alle pareti. Le ricoprono interamente, impedendomi di vedere il bianco delle mura. Si tratta di locandine di film, poster di gruppi musicali composti da uomini, quadri di artisti di sesso maschile. Esempi di arte vietata da un’altra direttiva dell’USP. Su una delle pareti, a partire dal pavimento fino a raggiungere i miei fianchi, ci sono dei DVD, impilati l’uno sull’altro in una serie di torri. Leggo alcuni titoli, e anche se non li conosco non impiego molto per capire che si tratta di film proibiti. Sulle torri di DVD, incorniciate e protette da un vetro, ci sono tre mappe del vecchio mondo. Osservo i contorni dei paesi che ora sono chiusi, leggo i nomi delle città che non esistono più. Mi soffermo su Torino, lì dove la nonna è nata e cresciuta. E’ un puntino a nord-ovest, in linea d’aria poco lontano da Malorai.

“Guarda,” dice Baguette alle mie spalle. Fra le dita ha un oggetto nero e lucido, di forma rettangolare. “Indovina cos’è.”

Prendo l’oggetto in mano e mi rendo conto di due cose: è pesante, e non è esattamente rettangolare – nella parte inferiore c’è un’apertura a forma di V, mentre in quella superiore c’è una piccola fessura.

“Non ho la più pallida idea di cosa sia. E’ illegale?”

“Illegale no,” risponde lei. “Inutile sì.”

“Inutile?”

“E’ una spillatrice,” dice, scandendo le sillabe. “La Vecchia mi ha detto che una volta serviva per spillare i fogli di carta insieme.”

“Cosa significa ‘spillare’?” chiedo, facendo roteare l’oggetto fra le mani.

Baguette si guarda attorno, fino a posare gli occhi su una vecchia rivista. “Dammi, ti faccio vedere.” Prende la spillatrice, e mi mostra come si usava: prende poche pagine del giornale, le sistema nella fessura in alto, e con forza preme le estremità inferiori. “Ecco,” dice, orgogliosa del risultato. “Ora le pagine sono spillate.”

Le pagine sono incollate l’una all’altra per mezzo di una piccola barretta sottile.

“Nessuna legge ne impedisce l’uso, ma siccome la carta non c’è più, le spillatrici sono praticamente inutili,” dice Baguette.

“Wow.” Resto a guardare l’oggetto per qualche secondo, affascinata come se avessi appena scoperto l’oro. “Cosa fai quando sei qui?” chiedo mentre cammino lungo le pareti, osservando i poster colorati. Su di essi sono stampati i volti e i corpi di uomini e donne di cui ignoro i nomi, le storie, le vite. Non li conoscerò mai. Non ascolterò mai le loro voci. “Oltre ad occuparti di Rose,” aggiungo.

“Per la maggior parte del tempo leggo. Rose ha un mucchio di libri che sono stati scritti addirittura prima che lei nascesse. Storie ambientate nel periodo in cui le auto non esistevano, e le persone dovevano muoversi con le carrozze.”

“Le carrozze,” le faccio eco. “Le donne vestivano in un modo stranissimo quando viaggiavano sulle carrozze.”

“E gli uomini?! Portavano dei cappelli alti e i baffi arrotolati sulle guance! Guarda,” dice, afferrando un album da un tavolino. Lo apre e mi indica un disegno a colori che raffigura una coppia, un uomo e una donna vestiti con gli abiti di quel periodo. L’uomo ha un cilindro alto sulla testa, e indossa una giacca nera più lunga sul retro.

Baguette sfoglia le pagine fino a trovare una foto. “Guarda questa. Guarda come mangiavano.”

La foto raffigura delle persone, forse una famiglia, sedute attorno ad un tavolo mentre mangiano. Ognuno di loro ha davanti un piatto, e nel piatto c’è del cibo vero. L’uomo e la donna sorridono, mentre i bambini, un maschio e una femmina, portano una forchetta alle labbra.

“Che strano,” mormoro. “Pensa a quanto tempo impiegavano allora per preparare il cibo e mangiarlo.”

“Già,” dice Baguette. “La Vecchia mi ha detto che nelle grandi occasioni passavano anche giorni interi in cucina.”

“A mangiare?”

“No, a preparare il cibo,” risponde ridendo. “Ore ed ore ai fornelli per sedersi attorno ad un tavolo e mangiare.”

Posso cominciare a comprendere la curiosità di Baguette per il mondo che non esiste più. Mi trovo in questa casa da meno di venti minuti e sento il bisogno di fare domande su ogni cosa, su ogni parola che leggo nelle locandine, su ogni pittore, su ogni cantante.

Dovrei andare via, prima di cadere nella spirale del proibito, ma non riesco a mettere fine a questo viaggio nel passato.

“E’ così strano,” mormoro, sfiorando con le dita l’uomo e la donna fotografati in una locandina.

“La Vecchia conserva di tutto,” dice Baguette. “Perfino gli elettrodomestici che non funzionano più. Questa casa è una miniera dell’illegale.”

“E quello cos’è?” chiedo, dopo aver posato gli occhi sull’altro lato della stanza, su un grande cubo viola sistemato su una mensola. Lo raggiungo passando fra due poltrone, scavalcando scatole chiuse seminate sul tappeto scuro.

Baguette segue il mio dito e lancia un gridolino quando capisce di cosa sto parlando. “Quello è un giradischi.”

“Girachè?”

“Giradischi.” Solleva la parte superiore del cubo e mi mostra un disco rotondo sul quale è appoggiata una barretta sottile. Solleva anche la barretta, prende il disco lucido, uno di quelli che ho visto solo sui libri. “Prima del lettore mp3, molti decenni prima,” dice, “si usavano questi per sentire la musica. Vedi questi solchetti?” chiede avvicinando al mio viso l’oggetto proibito.

“Mm-mm.”

“Lì è incisa la musica. Sistemando il disco sul piatto e la puntina sul disco, il suono inciso viene propagato attraverso le casse.” Mima ciò che ha appena detto appoggiando la barretta all’estremità del disco. “Quando il giradischi parte, la puntina si sposta ad ogni brano verso il centro.”

Non riesco a staccare gli occhi dal giradischi. Mi sembra l’oggetto più affascinante del mondo.

“Vuoi provare?” chiede Baguette a bassa voce.

“Provare?”

“Vuoi ascoltare una canzone?”

“Io non credo che… no,” dico, sapendo già che tipo di canzone potrebbe farmi ascoltare. “E’ vietato,” aggiungo.

Vorrei essere convinta al cento per cento delle mie parole.

“Abbiamo già violato almeno dodici direttive,” dice Baguette. “Una in più non fa differenza.” Gira attorno alla poltrona e va a piegarsi su una cassapanca di legno antico. Ne solleva il coperchio e in essa posso vedere centinaia di dischi, alcuni coperti da una pellicola trasparente, altri da copertine colorate. “La collezione della Vecchia,” dice Baguette facendo scivolare il dito indice sui dischi. “C’è di tutto. Pensa che quando… oh, ecco. Trovato.” Solleva una copertina quadrata, e su essa posso vedere chiaramente i visi di quattro uomini.

“Baguette, è musica cantata dagli uomini?”

“Pensavi davvero che avrei scelto qualcos’altro?” ribatte subito. Mi passa accanto, estrae il disco dalla copertina e lo appoggia sul piatto. “Pronta?”

Annuisco, la bocca secca e il cuore in gola. Annuisce anche lei, sorridendo. Sistema la puntina sul disco, e preme un pulsante.

Il piatto inizia a girare.

Non ho mai ascoltato una canzone cantata da un uomo. Vado ogni settimana al Musica Per Tutte, sono abituata alla voce di Jeanette. Non so cosa aspettarmi, ma di certo non è questo. Il suono è graffiante, ma allo stesso tempo melodico e dolce.

E’ strano, è diverso. E’ mille emozioni in una: paura, gioia, terrore che qualcuno ci scopra. Ma sopra ogni altra cosa, è curiosità. Ascolto le parole, alcune in francese, altre in inglese, e mi sento trascinata via, come dalla corrente di un fiume.

La canzone parla d’amore. L’ascolto con gli occhi incantati sul piatto che gira a velocità costante, pensando a mille cose: Quando è stata incisa? Chi era la ragazza? Gli altri tre uomini sulla copertina cantavano con il solista o suonavano?

Mentre penso a questo, Baguette fa un passo verso di me e mi prende per mano. Inizia a dondolare verso destra e verso sinistra. Senza rendermene conto, mi ritrovo a ballare lentamente con lei, rapita dalla musica e dalla voce dell’uomo che canta. Appoggio la testa sulla spalla di Baguette quando lei appoggia la sua sulla mia. La sento cantare sottovoce il ritornello in francese, e ciò che provo è infinito, unico. Speciale.

“Ti piace?” sussurra.

Non riesco a formulare una risposta, per cui mi limito ad annuire. Lei non deve rendersene conto, perché lo chiede di nuovo. “Ti piace, Lilac?”

“E’ bellissima,” rispondo, stringendo le dita fra le sue.

Vorrei che il mio nome fosse Michelle. Vorrei che qualcuno cantasse così per me.

Baguette sposta la testa per guardarmi. “Sapevo che ti sarebbe piaciuta,” dice sorridendo.

“Che momento romantico. Gradite una bottiglia di vino rosso e due candele?”

Sia io che Baguette saltiamo in aria alla voce che proviene dalla porta del salone.

“Scusi, Rose,” si affretta a dire Baguette, spegnendo il giradischi sul finire della canzone. “Ci scusi. Stavo facendo ascoltare a Lilac un po’ di musica.”

Rose è ferma sulla porta, con addosso una lunga vestaglia color sabbia che copre il suo corpo esile e anziano. Non è la prima volta che la vedo, ma è la prima volta che siamo così vicine. Il suo volto è segnato dalle rughe, in particolare sulla fronte. I capelli, biondi alle punte e bianchi alle radici, sono corti e arruffati. Le labbra sono ancora piene, ma contornate da tante piccole rughe. La sua intera figura mi ricorda quella di un’attrice che ho visto poco fa su una delle locandine, Katharine Qualcosa.

“Ci scusi,” dico anch’io. “Non volevamo svegliarla.” Guardo Baguette, non sapendo cos’altro dire. “E’ tardi. Sarà meglio che vada.”

“Ti è piaciuta?” dice la Vecchia, camminando verso di noi. Sembra tranquilla, ma mi fa ugualmente paura.

“Come?”

“La canzone,” dice, indicando il giradischi. “Ti è piaciuta?”

“Beh… noi-”

“Non sono Vega G, Lilac. Dio ti ringrazio,” aggiunge sollevando gli occhi al cielo. “Puoi rispondere liberamente.”

Annuisco, torturandomi i bordi della maglia con le dita. “Sì. Mi è piaciuta.”

“Bene.” Sorride. Porta le mani sul cuore prima di aggiungere: “Passa a Revolver, Margot. Io vado a preparare il tè.” Gira i tacchi e esce dalla stanza, ma prima di imboccare il corridoio si volta verso di me e aggiunge: “Mettiti comoda, Lilac. Non è mai troppo tardi per appassionarsi ai quattro di Liverpool.”

Dieci minuti Baguette ed io siamo sedute sul divano a sorseggiare profumatissimo tè (tè vero, non finto!) con la Vecchia, e ad ascoltare la musica de ‘i quattro di Liverpool’. Rose ha gli occhi chiusi, ma è sveglia. La tazza di tè è salda fra le sue mani. Baguette mi sorride, tenendo il ritmo della musica con un piede, e io le osservo entrambe, dicendomi che sì, sto violando un milione di regole, ma per la prima volta mi sento emozionata all’idea di vivere qualcosa che nessuna donna, in tutta Malorai, ha mai vissuto.

Ed è tutto merito del fascino del proibito.

“Rose?” Baguette si sporge in avanti e appoggia una mano sul suo ginocchio ossuto.

“Dimmi, Margot.” Apre gli occhi e ci guarda, bevendo un sorso di tè.

“Le andrebbe di raccontare qualcosa a Lilac? Qualcosa dei suoi tempi?”

“Baguette, no. Non deve farlo,” dico a Rose. “Non si preoccupi, non è necessario.” Lancio a Baguette uno sguardo imbarazzato. “Lascia stare,” dico fra i denti.

“A Rose piace parlarne,” insiste lei. “Vero, Rose?”

La Vecchia appoggia la tazza sul tavolino alla sua sinistra e unisce le mani in grembo.

“Tua nonna è la vecchia farmacista di Malorai, vero?” Quando parla, Rose lo fa scandendo ogni singola parola, come se chi le sta di fronte potesse avere difficoltà nel comprenderla. In realtà, il suo è solo il modo di parlare di una donna molto anziana. Non conosco la sua età, ma credo che la Vecchia potrebbe essere la madre di mia nonna, tanto è in là con gli anni.

“Sì,” rispondo. “Abitiamo a poche centinaia di metri da qui, signora.”

“Ricordo tua madre,” dice guardandomi negli occhi. “Non le somigli per niente.”

Baguette scoppia a ridere. “Come, Rose. Lilac è identica a Irene.”

“Fisicamente,” dice la Vecchia, dandomi uno sguardo generale. “Ma io non parlavo dell’aspetto fisico.” Prende la tazza, beve un altro sorso. “Allora, cosa vorresti sapere?” chiede, la voce quieta, ma non debole.

“Qualsiasi cosa,” rispondo subito, mandando all’aria ogni freno.

Lei ride. “Attenta, Lilac. Sarà meglio che tu faccia una domanda specifica. Molte delle cose che sono qui,” dice picchiettandosi la fronte, “potrebbero non piacerti. Avanti, chiedi pure. Chi studia Storia ha sempre un mucchio di domande da fare.”

Stringo la tazza fra le mani, rifletto

“Come fa a possedere tutte queste cose? Gli oggetti proibiti, l’auto nel garage, i libri e i dischi. Sono suoi? Come sono arrivati qui?”

La Vecchia alza un sopracciglio, e per la prima volta da quando è apparsa sulla porta del salotto vedo in lei non solo un’anziana bizzarra e con qualche rotella fuori posto, ma anche una donna capace di umorismo. “E’ questa la tua domanda, Lilac? Sul serio?”

“Sul serio?” le fa eco Baguette, dandomi una gomitata.

“Sì,” dico, sollevando le spalle. “E’ questa.”

La Vecchia si sporge in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia ossute. Dallo scollo della vestaglia scorgo il tessuto arricciato della camicia da notte bianca. Il suo profumo è delicato, semplice. “Risponderò alla tua domanda, Lilac, a patto che tu risponda correttamente alla mia. Ti racconterò come ho portato i vecchi archivi a Malorai dall’Italia, quando il paese è stato chiuso. Ti spiegherò cosa contengono le scatole alla tua sinistra, e ti dirò perché nessuna guardia è mai entrata in casa mia per portarmi al carcere di Parigi. Risponderò ad ogni tua domanda, ma prima dovrai rispondere alla mia. Intesi?”

Annuisco.

“La mia domanda è questa, Lilac: Cosa occorre per vedere bene?” Scandisce la parole una alla volta, e alla fine si siede come prima, con la schiena appoggiata alla poltrona e la tazza fra le mani.

“E’ questa la domanda?” chiedo, guardando Baguette con gli occhi pieni di stupore.

“Proprio questa. Cosa occorre per vedere bene?”

“Beh, è semplice. La vista. Gli occhi. Prima si usavano gli occhiali, quando una persona aveva un difetto visivo, ma oggi è possibile prevedere e curare ogni problema ancor prima della nascita.” Mi giro verso Baguette. “E’ così, no?”

Baguette guarda Rose. La donna sorride, prima di alzarsi in piedi. “Torna da me quando avrai la risposta giusta, Lilac,” dice, avviandosi nel corridoio. “In quell’occasione ti racconterò tutto, anche ciò che non hai chiesto. Anche ciò che non sai di voler sapere. E’ una promessa.”

“Ma che vuol dire? E’ forse un indovinello? Uno scioglilingua? Mi faccia riprovare.”

Lei scuote il capo. “Torna da me con la risposta giusta. Sarò qui ad aspettarti.” Poi guarda Baguette, e aggiunge: “In bocca al lupo con il motore ad aria.” Solleva la tazza come per fare un brindisi. “Buonanotte, ragazze.”

Sentiamo i suoi passi percorrere il corridoio fino alle scale, poi il cigolio di una porta – probabilmente quella della sua camera da letto – che si chiude.

“Qual è la risposta?” chiedo a Baguette. “Tu la conosci?”

“Io avrei risposto ciò che hai risposto tu,” dice, alzandosi e raccogliendo le tazze vuote. “Però l’hai sentita, quando avrai la risposta giusta ti racconterà tutto.”

“Secondo me è matta,” dico a bassa voce, aiutando la mia amica a riordinare le poltrone e il tavolino. “Non esiste un’altra risposta oltre quella che le ho dato.”

Baguette scrolla le spalle. “Con Rose una sola cosa è certa, Lilac: non smetterà mai di stupirti.”

E proprio in quel momento, un forte suono mi fa girare la testa verso una delle pareti. “Che cos’è quello!?”

“Un orologio a pendolo. Ha quasi due secoli. L’ho trovato in garage, non funzionava più perché il motore elettrico che regola il pendolo era danneggiato. L’ho riparato,” dice con orgoglio, “sostituendo una delle nostre batterie al motorino.”

“Non ho capito neppure una parola di ciò che hai detto,” mormoro, guardandola come se avesse tre teste. “Hai usato una batteria solare per far camminare un vecchio orologio?”

“Esatto.”

Osservo l’orologio appeso alla parete, incastonato in una struttura di legno scuro che si sposa alla perfezione con tutti gli oggetti antichi presenti nella stanza. “Accidenti, è tardi!” esclamo, osservando i numeri evidenziati dalle lancette. “Devo tornare a casa, subito.”

“D’accordo,” risponde lei sollevando le tazze. “Porto queste in cucina e andiamo.”

Vorrei seguirla. Curiosare nella cucina della Vecchia come ho curiosato in questa stanza, ma invece resto qui, ad osservare per l’ultima volta i quadri e ad ascoltare le ultime note dell’ennesima canzone proveniente dal giradischi.

Quando ci ritroviamo in strada, nella notte ancora tiepida e silenziosa, è Baguette a parlare per prima. “Puoi capire, adesso? Puoi capire perché amo tutti gli oggetti proibiti?” Si gira verso la casa di Rose. “Puoi capire perché per me quello è un luogo felice?”

“Sì,” rispondo. “Ora posso capire, Baguette.” Penso alla voce proveniente da un’altra epoca che canta per una ragazza chiamata Michelle. Penso alle foto, alla coppia stretta in un abbraccio su una delle locandine appese al muro. Penso alla voce di Rose: anch’essa, come la sua casa, sembra contenere tutto il passato del mondo. “Però è proibito,” dico sottovoce, e non so se lo faccio per ricordarlo a lei o a me stessa.

“Però mi rende felice,” rilancia Baguette. “E io preferisco dare più valore a ciò che mi rende felice che alle regole. E so che non dovrei dirlo, soprattutto dopo quello che è successo oggi alla cerimonia, Lilac, però è così. Tu hai un mucchio di cose,” dice gesticolando. “Hai tua nonna, hai i tuoi libri di Storia e il tuo amato liceo. Da Settembre avrai un lavoro e presto avrai anche una figlia. Io ho poco e nulla, invece. Pensaci. Ho te, vero. Ho nonna Francesca, e voi due siete come una famiglia. Ma non siete la mia famiglia. Mia madre è morta, mia sorella pure. Non ho cugine, non ho una nonna, non ho molte amiche. Ho la Vecchia e il suo museo. Ho quel mondo fatto di oggetti da riparare, di dischi, di vecchi giornali e di libri proibiti.”

“Ma presto procreerai anche tu,” dico. “Presto avrai anche tu una famiglia. Hai già compiuto diciotto anni, in fondo. Devi solo fare gli esami ed avviare il processo riproduttivo.”

Baguette scuote il capo, e il sorriso che ha sulle labbra rende ancora più triste l’assenza di luce nei suoi occhi. “Io non intendo procreare, Lilac. Non voglio avere una figlia.”

“Perché?”

“Per tanti motivi. Considerando l’esperienza di mia madre, non è detto che io riesca a partorire senza lasciarci le penne. E l’idea di mettere al mondo un’orfana non mi piace neanche un po’. Io sono un’orfana, Lilac. Sono cresciuta da sola. E la mia vita non è migliore per questo. E poi,” dice sospirando, “perché dovrei… come potrei.” Si ferma e riparte più volte, fino a non poter più continuare. Le accarezzo il braccio, avvicinandomi di qualche passo.

“Che c’è, Baguette. Parlami.”

Quando mi guarda, i suoi occhi sono pieni di lacrime. “Perché dovrei far nascere una bambina in un mondo dove tutto è proibito, Lilac? Dove il nostro unico scopo è quello di adorare Vega G e cercare di non estinguerci? Perché dovrei rischiare la mia vita e quella della mia eventuale bambina, solo per mettere al mondo una persona alle cui domande non potrò mai rispondere, se non con ‘Questo è vietato. Di questo non si può parlare. Questo è proibito.’ Perché dovrei partorire? Per far rientrare mia figlia nelle tue statistiche sulla mortalità infantile e sulla popolazione mondiale? Perché è quello il nostro unico scopo, Lilac. E questa non è vita. Quella,” dice, indicando con forza la casa di Rose, “quella è la vita che vorrei. Per me e per mia figlia. Quel mondo, quei suoni, quella storia. Ma questo,” dice indicando la strada in cui siamo ferme. “Questo non è il mondo per me. Questo non è il mondo in cui voglio procreare.” Lascia andare una risata amara prima di pulirsi le guance bagnate di lacrime. “Anche questo termine è assurdo, non te ne rendi conto? Procreare. Una volta si diceva Fare figli, una volta si diceva Creare una famiglia. Ora cosa siamo, Lilac? Macchine che sfornano bambine per evitare che l’USP si estingua.”

Non l’ho mai vista così. Mai. Baguette è sempre stata ottimista. Non posso fare a meno di pensare che gran parte del suo sconforto sia causato dal mondo che ha conosciuto nel museo proibito della Vecchia. Prima di iniziare a lavorare da lei, Baguette non era così.

C’è un motivo per cui certe cose sono vietate, e ora lo comprendo più che mai. Ricordare il passato provoca la nostalgia e il desiderio di tornare indietro. E quando ciò si rivela impossibile, perché gli uomini non esistono più, ecco che la nostalgia diventa disperazione, rabbia. E’ il Periodo Buio, e Baguette sta vivendo il suo.

Devo aiutarla. Devo rimanerle accanto per evitare che il suo sconforto diventi depressione, che la sua sfiducia verso le regole diventi anarchia, ribellione. Non posso permettere che invecchi come Rose, nel suo mausoleo fatto di vecchie cose. Non posso lasciarla nella sua solitudine.

Non posso allontanarmi da Malorai. Non posso lasciare Baguette.

Mi avvicino e la prendo fra le braccia, stringendola. Non posso capire tutto ciò che prova. Sono orfana come lei, è vero, ma io ho avuto la nonna. Io ho avuto lo studio, i libri, i mille progetti del liceo. “Noi non siamo macchine,” le dico a voce bassa. “Non abbiamo un unico scopo, non siamo qui per fare numero.” Prendo il suo viso fra le mani, la guardo negli occhi. “Tu non sei sola, chiaro? Tu hai me. Avrai sempre me, Baguette. Sai fare un mucchio di cose, sei così intelligente, e pensi davvero di non avere nulla? Potresti tornare a studiare, diventare ingegnere come tua madre. Potresti inventare mille cose utili per le donne, potresti… Puoi,” mi correggo. “Tu puoi fare tutto, Baguette. Tutto.”

Annuisce, ma non smette di piangere. La tengo stretta a me, incurante del fatto che probabilmente le sto facendo male.

“Andrà tutto bene,” le dico all’orecchio. “Te lo prometto.”

Non ti lascerò, Baguette. Te lo prometto.


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