Limiti e confini: il Boarder Wall tra Messico e USA

Creato il 25 marzo 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Elisabetta Stomeo

Nel suo discorso annuale tenuto il 14 gennaio del 1963 davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America, il Presidente John Fitzgerald Kennedy definì il muro di Berlino come “il muro della vergogna”, simbolo del fallimento del comunismo. In netto contrasto con la tesi di Vico sui corsi e ricorsi storici, nel 1994 il Presidente Bill Clinton diede inizio a quella che venne chiamata Operation Gatekeeper (ribattezzata in Messico Operación Muerte), con cui si approvò la costruzione di una barriera di separazione tra San Diego (California) e Tijuana (Messico); l’obiettivo dichiarato fu quello di riprendere il controllo della frontiera e contenere – se non impedire – l’immigrazione illegale ed il traffico di armi e droga, garantendo, in tal modo, un’efficace tutela della sicurezza dei cittadini statunitensi, vessati dagli innumerevoli episodi criminosi perpetrati da “fuorilegge” messicani. Tale operazione, messa in atto dalla US Border Patrol (agenzia federale responsabile dell’applicazione della legislazione dei confini) e rientrante nelle competenze di quello che all’epoca era chiamato United States Immigration and Naturalization Service [1], ebbe una grande eco a livello mondiale; ciononostante, occorre ricordare che non fu l’unica misura adottata dal governo statunitense per frenare l’immigrazione messicana.

Nel 1993, infatti, aveva avuto inizio la cosiddetta “Operation Hold the Line” con cui si era aumentato il numero delle unità militari preposte al controllo della zona di frontiera tra El Paso (Texas) e Ciudad Juárez in Messico (ampliandola, in un secondo momento, allo Stato del New Mexico): vennero creati degli avamposti militari a distanza di un quarto di miglio l’uno dall’altro su tutta la zona perimetrale che si estendeva a venti miglia ad est e ad ovest della città statunitense. Nel 1999 la politica di difesa contro l’immigrazione illegale applicata in California venne emulata in Arizona: grazie alla Operation Safeguard, venne eretta una nuova barriera a Tucson.

Negli anni a venire continuarono a sorgere muri (seppur di minore grandezza ed estensione) su vari punti della frontiera, entrando a far parte, in tal modo, della vita quotidiana dei cittadini, nel bene e nel male: si crearono gruppi ed associazioni di appoggio alla politica di divisione sia da una parte che dall’altra dei muri (come il contraddittorio You Don’t Speak For Me, formato da statunitensi di origine ispanica) e, nel frattempo, cittadini di entrambe le nazioni (per lo più agricoltori) insorsero contro l’incursione smodata, illogica e poco pianificata delle barriere, che modificarono il corso di fiumi, distrussero ettari di campi coltivati e intaccarono con preponderanza l’equilibrio ambientale della zona. Nonostante gli inconvenienti a livello ambientale avessero generato una notevole mole di procedimenti risarcitori, l’idea che le barriere divisorie producessero effetti altamente positivi si era installata nella maggioranza dell’opinione pubblica ed era divenuta un punto cruciale anche nei programmi politici, soprattutto dei repubblicani.

Nel 2006, a tal proposito, George W. Bush approvò il “Secure Fence Act of 2006″, H.R. 6061 [2] (poi Public Law n.109-367), conosciuta come la “ley del muro”, il cui obiettivo era quello di «realizzare e mantenere il controllo delle operazioni sull’intero territorio e costa nazionale degli Stati Uniti». Il Presidente Bush, al momento dell’approvazione, dichiarò che gli Stati Uniti avevano da sempre una grande responsabilità (cioè la tutela dei propri confini) e che l’approvazione di tale legge avrebbe dimostrato il serio impegno dei repubblicani a difendere il loro popolo, rendendo più sicure le frontiere meridionali attraverso la loro modernizzazione.

Ciò che si ottenne con la “Public Law n.109-367″, dunque, fu lo stanziamento di 1,2 miliardi di dollari destinati alla difesa di coste e confini, tramite la costruzione di una barriera divisoria lunga 700 miglia tra gli Stati Uniti ed il Messico, costellata da telecamere, rilevatori di movimento, moderne squadre di vigilanza e, in alcuni punti (come in California), la costruzione di un doppio muro rinforzato dal ferro spinato con presenza militare 24h su 24, oltre all’acquisto di veicoli altamente tecnologici e di aerei non armati.

Effettivamente il confine tra i due Paesi è da sempre considerato come una delle zone del mondo più soggette ai flussi di migrazione illegale: si calcola che ogni anno oltre 450 mila messicani tentino di valicare i confini e che sul territorio statunitense vi siano oltre 11 milioni di immigrati irregolari (di cui oltre la metà di origine ispanica). Nel periodo immediatamente successivo all’approvazione della nuova legislazione, l’immigrazione messicana, per la prima volta dagli anni Novanta, si ridusse: il think tank statunitense Pew Research Center ha rilevato che dal 2005 al 2010 il numero dei messicani ritornati in patria è stato superiore a coloro che ancora inseguivano l’American Dream. Tale inversione di rotta è dovuta ad un mix di fattori quali la crisi economica mondiale, un tasso di natalità in declino in Messico ma, in maniera più cospicua, alla politica altamente restrittiva degli Stati Uniti in materia di immigrazione illegale e all’innalzamento delle barriere che hanno de facto impedito il flusso di gente e di merci, oltre che all’inasprimento delle politiche di deportazione dei clandestini.

Tale legislazione, tuttora vigente, è attualmente in fase di riprogettazione. Il nuovo Presidente Obama, assieme al suo entourage, si è fatto portavoce di una massiccia riforma bipartisan (appoggiata anche e straordinariamente dai repubblicani) per migliorare la politica migratoria, legge che ha già superato positivamente il vaglio del Senato ed è in attesa di essere discussa dalla Camera. Il punto di forza di tale proposta risiede nella possibilità di concedere la tanto agognata green card agli immigrati illegali dopo un (macchinoso) percorso burocratico lungo tredici anni: una sorta di “ricompensa” dei democratici a tutti gli ispanici che avevano aiutato il Presidente Obama a vincere le elezioni ed un (seppur tenue) tentativo repubblicano di accaparrare i consensi di tale target di popolazione.

Ciò che, tuttavia, è interessante mettere in luce è che la legge degli “11 Millions Dreams”, in ossequio al tradizionale meccanismo giuridico dei checks and balances, ha come ulteriore obiettivo quello di inasprire ancor di più le misure di sicurezza poste ai confini del territorio statunitense: verrebbero spesi, infatti, 30 miliardi di dollari per costruire ulteriori 700 miglia di recinzione con il confine messicano, dotandole di droni e radar; si alzerebbe a 40 mila il numero degli agenti di frontiera; il Department of Homeland Security doterebbe sia gli aeroporti che i posti di frontiera di sistemi di riconoscimento biometrico per poter letteralmente scandagliare tutti coloro che permangono sul territorio statunitense oltre la scadenza del visto.

Al di là delle notizie di stampo squisitamente politico e sensazionalistico, in realtà esistono varie ed importanti questioni giuridiche di ambito internazionale sia per quanto riguarda la tutela dei diritti umani degli immigranti irregolari sia riguardo all’effettiva competenza decisoria di uno o dell’altro Stato, in ossequio ai trattati e agli accordi sovranazionali firmati da entrambi.

Il “muro della vergogna” è diventato teatro di infinite violazioni di diritti umani, segnalate e denunciate continuamente dalle associazioni non governative e dallo stesso governo messicano, il quale ha categoricamente condannato (per ovvi motivi) la sua costruzione, così come anche la volontà di riforma della presente legislazione. È molto probabile che l’approvazione della riforma bipartisan (preceduta, tra l’altro, dalle più massicce e radicali operazioni poliziesche di deportazione della storia del continente americano), se da una parte coronerà il sogno di 11 milioni di stranieri residenti negli Stati Uniti, dall’altra corre il rischio di inasprire ed irrigidire drammaticamente le relazioni internazionali tra i due Stati.

La soluzione per frenare l’immigrazione illegale non è certamente quella di ghettizzare uno, o meglio, due popoli, piuttosto sarebbe positivo implementare le trattative diplomatiche e ricercare una strategia comune di diritto internazionale.

* Elisabetta Stomeo è PhD candidate in Scienze Giuridiche e Politiche (Università Pablo de Olavide di Siviglia)

[1] La United States Immigration and Naturalization Service (INS), agenzia federale per l’immigrazione e la naturalizzazione creata nel 1933, cessò di esistere con tale nome nel 2003 e le sue funzioni vennero suddivise tra tre nuove entità del Dipartimento di Giustizia, cioè la United States Immigration and Customs Enforcement (ICE), la United States Customs and Border Protection (CBP) e la United States Citizenship and Immigration Services (USCIS).

[2] Testo integrale della H.R. 6061 http://thomas.loc.gov/cgi-bin/bdquery/z?d109:H.R.6061:

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