lincoln

Creato il 04 febbraio 2013 da Albertogallo

LINCOLN (Usa 2012)

Appena una decina di giorni fa iniziavo con queste parole la recensione di A royal weekend: “E così, dopo Anthony Hopkins, Josh Brolin, Henry Fonda, Jon Voight, Frank Langella e mille altri attori, persino l’insospettabile Bill Murray entra nel non particolarmente esclusivo club di coloro che hanno interpretato in un film la parte di un presidente americano”. Nemmeno il tempo di riprendersi dalla mediocre visione della pellicola di Roger Michell che a questo elenco è necessario aggiungere un altro illustrissimo nome, quello di Daniel Day-Lewis, nei panni di Abraham Lincoln per l’ultima fatica cinematografica di Steven Spielberg.

Un film impeccabile sotto molti punti di vista. Elegante, sfarzoso, recitato da dio, diretto e fotografato con gusto: c’è poco da fare, quando Spielberg decide di fare bene le cose, evitando le cazzate, come in questo caso, pochi registi al mondo possono raggiungere simili traguardi di perfezione formale. Poi, certo, si può discutere sul fatto che si tratti di maniera e che, in fondo, Lincoln non aggiunga né tolga niente alla quarantennale carriera del regista americano, ma rimane il fatto che, al netto delle pomposissime e insopportabili musiche del solito John Williams, questo film è un esempio virtuoso di cinema hollywoodiano d’alto livello. Notevole, in particolare, l’interpretazione sotto le righe del protagonista, che potrebbe a buon diritto aggiudicarsi il terzo Oscar della sua carriera.

Ma in realtà non è del film in sé che voglio parlare. Quanto piuttosto di una cosa cui ho pensato per tutti i 150 minuti (forse un po’ troppi: specialmente gli ultimi 20 sono abbastanza superflui) di proiezione. Ovvero alla geniale e ormai antichissima operazione di marketing/comunicazione integrata che sta alla base di quello che ancora qualcuno si ostina a chiamare american dream. Lincoln ci mostra il complesso processo politico che portò all’approvazione (nel 1865) del XIII emendamento della Costituzione americana, grazie al quale venne definitivamente abolita la schiavitù, un processo per molti versi un po’ losco che fu portato avanti con minacce, corruzione, tradimenti, trasformismi e quant’altro. Ecco: come viene reso tutto ciò dal punto di vista narrativo? Essenzialmente con due stratagemmi: l’ironia e la “compensazione” delle suddette azioni con un numero uguale o forse superiore di azioni “eroiche” e/o dall’alta moralità compiute dai protagonisti del film. Per capirci: nel film di Spielberg non c’è alcuna condanna dei metodi assolutamente non trasparenti con cui la battaglia per la ratifica venne condotta. Gli “scagnozzi” che ebbero il compito di minacciare o corrompere i Rappresentanti dei vari stati alla vigilia del voto vengono dipinti come simpatici birbantelli, e ogni azione anche illecita portata avanti per giungere allo scopo viene mostrata come un male necessario, un qualcosa di magari vagamente riprovevole, ma comunque ampiamente giustificato dal fine.

Certo, parlando di fine, di scopo politico, quale migliore occasione dell’abolizione della schiavitù per piegare a proprio piacimento le vaghe regole della democrazia. Ma il fatto che in questo film non ci sia neppure un minimo accenno di denuncia, neppure un piccolo storcimento di naso per i modi in cui questa complicata operazione venne portata avanti, e il fatto che, come era ovvio prevedere, Abraham Lincoln ne esca come la più eroica delle figure, fa (o dovrebbe far) riflettere noi italiani su come un simile avvenimento storico sarebbe stato affrontato, da un punto di vista cinematografico, dalle nostre parti. Ogni singolo evento della storia italiana è stato letto nei nostri film d’autore con occhio critico, con spirito di denuncia, anche quelle pagine di storia che altrove (negli Stati Uniti, certo, ma anche in Francia) sarebbero state esaltate senza se e senza ma. Mi riferisco principalmente al processo di unificazione e alla resistenza antifascista. Pellicole come Il Gattopardo, Novecento, Noi credevamo ecc. dipingono la storia italiana come un continuo alternarsi di grandi ideali e infime bassezze, con l’ago della bilancia drammaticamente rivolto verso queste ultime. Anche un film come La grande guerra, il capolavoro di Mario Monicelli, che racconta in fondo un episodio di estremo eroismo, dipinge questo atto come il riscatto morale dei due protagonisti, precedentemente rappresentati come impenitenti furbacchioni (uno del Nord e uno del Sud, tanto per non fare sconti a nessuno). E Hollywood? Come avrebbe affrontato Hollywood una simile vicenda? Come verrebbe raccontata nei film americani l’esperienza di un’eventuale guerra di liberazione statunitense? Immagino che i poveri Jacovacci e Busacca verrebbero dipinti come degli eroi sin dall’inizio. Magari due eroi non perfetti, fallibili, in cerca anche loro di riscatto, ma comunque eroi, non maschere semicomiche prese a esempio della pusillanimità del loro paese.

Meglio così? O forse è più onesto e profondo l’approccio critico e disilluso del cinema nostrano? Impossibile dirlo, anche considerato il fatto che pure a Hollywood – o forse, per meglio dire, nelle sue periferie – esistono delle eccezioni alla regola (un titolo su tutti: I cancelli del cielo di Michael Cimino). Eppure rimane il fatto che il cinema, più di ogni altro medium, ha contribuito, da un lato, a creare e mantenere il mito del sogno americano, e dall’altro, ed è il nostro caso, a gettare un’ombra di sospetto su quanto è successo in Italia da 150 anni a questa parte. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: è l’America a essere migliore, o è piuttosto il suo cinema a essere più abile nel dare della storia (per quanto riguarda l’attualità è un altro paio di maniche) una lettura più edificante? Al contrario: è l’Italia a essere peggiore, o è piuttosto il suo cinema a vedere le cose sotto un punto di vista particolarmente sinistro? Mi piacerebbe poter dire che la verità, come spesso accade, sta nel mezzo, ma una risposta, temo, non l’avremo mai.

Alberto Gallo



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