Lincoln è lo Steven Spielberg che non ti aspetti. Siamo lontani dal suo cinema epico ed eroico, avvincente ed emozionante; categorie che contraddistinguono il suo marchio di fabbrica e che in nessun caso potranno mancare in un suo prodotto, ma mai così marginali e sfumate. Sarebbe superfluo riferire l’ormai nota circostanza storico-politica della guerra civile degli Stati Uniti d’America, e del suo principale protagonista Abraham Lincoln, pioniere nell’abolizione della schiavitù. Probabilmente riflettendo su tutto questo Spielberg ha evitato la strada più facile e prevedibile, presentandoci una vicenda sotterranea e contraddittoria, un duello a distanza logorroico e cerebrale, una dialettica ragionata e stringente: una storia puramente politica.
1865: La guerra civile annovera una serie interminabile di morti e a giorni si voterà alla Camera sul tredicesimo emendamento costituzionale volto ad abolire la schiavitù dei neri, carburante imprescindibile per l’economia degli Stati ribelli del Sud. Il disegno politico del presidente repubblicano Lincoln consiste nell’ approvazione dell’emendamento come compromesso per la pacificazione, anteriore ad un eventuale termine delle battaglie; consapevole che se i fuochi cessassero prima della votazione anche una frangia dei repubblicani rifiuterebbe un decreto così liberale. A complicare la situazione è la constatazione che sono necessari almeno venti voti del partito democratico, ed è qui che il film si avvia con tutti gli spudorati meccanismi politici di ieri, di oggi, di sempre.
Cosicché se da un lato, preclusi ai nostri occhi, infuriano le sanguinose ed esasperanti battaglie, l’occhio della cinepresa si insinua nelle mura dei centri istituzionali del potere, costruiti con tutta la cura maniacale e ossessiva per i particolari più minuziosi di Steven Spielberg. I nuovi agoni dello scontro sono i tavolini della Casa Bianca e i seggi della Camera; dimenticate proiettili e archibugi, immaginate inchiostro e fogli volanti. Lo spettatore viene chiamato a seguire attentamente tutte le concitate missioni diplomatiche, gli intricati cavilli giuridico-amministrativi, gli innumerevoli compromessi fatti di simulazioni e dissimulazioni che portano al più attuale trasformismo politico. Il tredicesimo emendamento non è solo il principio e il cardine della società egualitaria e universalmente democratica degli Stati Uniti d’America, ma prima una conquista strumentale tesa a comporre e imporre la propria (fortunatamente giusta) ideologia nazionale agli inflessibili Stati del Sud.
Atlante dell’intero film è il Lincoln del magistrale Daniel Day-Lewis: screziato e camaleontico, mutevole e pieghevole in rapporto ai vari personaggi, dalla moglie vacillante al primogenito caparbio; complessivamente una figura caratterizzata da una solenne pacatezza e un’aura di riverenza, a tratti mistico ad altri machiavellico, umanamente affascinato e intrattenente, presente e sfuggente.
Al termine del film la considerazione che resta è quella di una nazione orfana, ma ormai matura per la ricostruzione.
A cura di Gabriele Vertullo
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