Linee, figure e tratti

Da Bruno Corino @CorinoBruno


Nella mente avevo un’immagine. L’immagine era di per sé sfuocata; alcuni particolari spiccavano con maggior evidenza, dovuto forse al fatto che erano emotivamente più segnati; altri, invece, apparivano sbiaditi, più sfumati, incerti. Attraverso le parole credevo di poterla descrivere, magari nel modo più oggettivo possibile. Usavo i “sostantivi” come linee, i “verbi” come piccoli tratti che uniscono le linee; gli “aggettivi”, gli “avverbi” come colori per riempiere gli spazi creati dal tracciato delle linee chiuse. Così, per descrivere questa immagine avrei scritto così: un uomo cammina lungo il marciapiede. Con due linee e un tratto disegnavo una figura; se ora volessi dare dei toni colorati a questa immagine “neutrale”, scriverei: un uomo stanco cammina lentamente lungo il marciapiede. I toni di questa immagine sono spenti. Se volessi dare dei toni vivaci a questa immagine, scriverei: un uomo elegante cammina allegramente lungo il marciapiede. Dopodiché posso disporre le immagine in una sequenza di eventi, e dare ad essa uno sviluppo narrativo: le posso far scorrere velocemente, e quindi dare loro un ritmo dinamico, nervoso; oppure, posso farle scorrere in modo più dilatato, lento, misurato; ottenendo un ritmo più meditativo, riflessivo. Ecco, come più o meno ho proceduto sino a qualche tempo fa. Come un pittore mi mettevo davanti al cavalletto pensando di dipingere l’oggetto che avevo di fronte. L’immagine m’era offerta dalla stessa realtà ch’avevo presente; il mio compito, mi sembrava, consistesse nel saperla riprodurre nel modo che a me appariva: la più fedele possibile. Preparavo lo schizzo con delle linee e dei tratti e mentalmente stendevo i colori. Questa maniera possiamo definirla, senza, possibilità d’equivoci, “descrittiva”.

A un certo punto ho maturato l’idea di cambiare stile e modo di “dipingere”. Praticamente, ho cominciato ad eliminare linee e tratti; ad usare soltanto colori. Ho evitato di usare i sostantivi e i verbi come linee e tratti. Inoltre, per evitare di cadere nel “descrittivismo” ho cominciato a inseguire il “tratto” della pennellata senza più avere presente nella mente un’immagine. In sintesi, posso rendere più comprensibile questo modo nuovo di procedere, scrivendo così: prima partivo dall’immagine presente alla mente per descrivere una realtà (vissuta, ma trasfigurata); ora, invece, parto da una realtà interiore (ma né vissuta, né trasfigurata) per approdare a un’immagine. A questo punto, l’immagine creata (e non riprodotta) suggerisce essa stessa un’altra immagine, facendo emergere una sequenza di immagini senza che si crei la possibilità di poter stabilire tra esse un rapporto gerarchico, poiché ciascuna immagine non è la conseguenza dell’immagine precedente, in quanto tra loro sussiste soltanto un rapporto di affinità evocativa, o d’assonanza. Inoltre, il ritmo con cui procedo nella loro costruzione non è più deciso dal tipo di sequenza che la narrazione ha messo in atto, in quanto, appunto, mancano tutti i rapporti gerarchici, bensì viene deciso da come le immagini emergono dal loro essere. A questo punto potrei anche affermare che non sussiste più neanche uno sviluppo narrativo, poiché non esistono più eventi che si svolgono in una loro concatenazione lineare; le immagini si presentano infatti in ordine sparso; sarà la sintesi che il lettore darà loro a far assume mere a questo ordine sparso il senso che gli attribuirà.

Per riprendere l’esempio precedente, se io scrivessi: un uomo cammina lungo il marciapiede, a un certo punto si ferma davanti a una vetrina; si comprende ch’io ho presente delle immagini a cui devo dare un ordine gerarchico. In questo caso ho soltanto abbozzato il disegno. Ma se avessi voluto eliminare le linee e i tratti, e usare soltanto i colori per creare delle immagini, evitando quindi di descrivere qualsiasi immagine, sarei partito da una realtà interiore, magari da un senso di angoscia che m’opprime, o da un senso di gioia che mi travolge, e per tirar fuori i colori che meglio sanno esprimere quella realtà attraverso delle immagini, non vissute né viste. Allora, dovendo usare soltanto quei sostantivi e quei verbi per esprimere un senso d’angoscia, non più come tratti o linee, ma come colori, avrei scritto: un marciapiede lungo il cammino di un uomo fermo davanti a una vetrina. Questa non è più la descrizione di una immagine, ma è un’immagine emersa da una realtà angosciata. E se volessi accentuare i toni cupi, scriverei: un marciapiede lungo il cammino stanco di un uomo fermo davanti a una vetrina vuota. È la stessa differenza che noto tra: “Era un’altra notte insonne…” e “Un’altra notte insonne”. Il primo incipit traccia una linea narrativa, delinea lo sviluppo di una trama ch’aspetta d’essere riempita di contenuti, e quindi di toni, colori, ecc. Il secondo incipit, invece, è soltanto una macchia di colore stesa sulla pagina bianca, non prelude a niente, a nessun sviluppo; a fianco, sopra o accanto a questa macchia, posso stendere un’altra macchia, che contrasta con la prima, o la completa, o ne annulla l’effetto; in ogni caso, sono queste macchie di colore che formano i volumi, le tonalità, che danno al dipinto la sua struttura compositiva.


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