E dunque sul treno, di ritorno dal Salone internazionale del libro di Torino, mi sono soffermata a pensare agli incontri a cui ho assistito nel fine settimana. Come qualcuno di voi avrà forse notato sulla pagina Facebook del blog, le foto dei panel che ho postato ritraevano tutte lo stesso sfondo: un pannello beige con i loghi degli sponsor del Salone. Questo perchè praticamente tutti gli incontri a cui sono stata presente, che avevano come protagonisti degli ospiti “arabi”, sono stati organizzati nell’ambito della manifestazione Lingua Madre, una sorta di incubatore per alcune lingue extraoccidentali, tra cui: arabo, turco, bulgaro e persiano.
Sotto l’ombrello di Lingua Madre, gli ospiti di “lingua” araba sono stati: Jamila Hassoune (Marocco), Joumana Haddad (Libano) e Leena Ben Mhenni (Tunisia) presentate da Karima Moual (Italia-Marocco); Mohammed al-Achaari (Marocco) presentato da Khaled Fouad Allam (Algeria-Italia); Amara Lakhous (Algeria-Italia) presentato da Carmine Abate (italiano ma di origine arberesh); Khaled Fouad Allam presentato da… Khaled Fouad Allam; Hamid Grine (Algeria) presentato da Amara Lakhous.
Ogni incontro meriterebbe un racconto a sé: a partire da quello con lo scrittore marocchino al-Achaari, il cui moderatore non aveva con tutta evidenza compreso che il protagonista dell’incontro non era lui, bensì al-Achaari. Il quale, all’interno di un panel di 40 minuti, avrà parlato sì e no circa 10 minuti. Se mi ricordo cosa ha detto? Naturalmente no. È stato quasi impossibile apprezzare cosa lo scrittore avesse da dire. Fouad Allam ha sì parlato estesamente del libro (calcando forse un po’ la mano in alcuni punti, quasi volesse convincerci a comprarlo), ma era troppo preso dal suono della propria voce per ricordarsi che del primo romanzo marocchino vincitore dell’Arabic Booker avrebbe potuto – e dovuto! – parlarne l’autore stesso.
Il panel su donne e rivolte arabe organizzato la mattina della domenica è durato un’oretta scarsa. Preceduto dai saluti del Presidente della Fondazione Carical e da un brevissimo (quanto inutile) filmato sulle primavere arabe, ha visto succedersi in serie gli interventi delle tre ospiti, che hanno parlato ciascuna per meno di 10 minuti. I discorsi di Hassoune e Ben Mhenni, che parlavano in francese, sono stati tradotti in italiano da un’interprete. Ho detto tradotti? No, scusate, intendevo dire: interrotti. Il povero pubblico sugli spalti, me in primis, era alquanto basito: l’interprete, che evidentemente era abituata a una simultanea in cuffia, ha (praticamente sempre) interrotto le relatrici ogni volta che le due facevano una pausa per respirare, a volte persino tranciando le loro ultime parole. Io, che cercavo di prendere appunti, ero in preda all’angoscia: dovevo seguire l’italiano o il francese? È stata durissima per il pubblico e posso solo immaginare quanto lo sia stata per le due ospiti. Il risultato è stato un piccolo pastrocchio che ha lasciato l’amaro in bocca a molti, Hassoune e Ben Mhenni su tutte (ci è bastato guardare l’espressione sui loro volti per capirlo). Joumana Haddad, che parla l’italiano molto bene, non ha avuto bisogno dell’interprete (per sua fortuna).
L’incontro successivo ha visto di nuovo protagonista Khaled Fouad Allam che presentava…il nuovo libro di Khaled Fouad Allam sulla primavera araba. È stato più forte di me: confesso di essermene andata. Mi dispiace per l’autore e l’editore, ma trovo alquanto inconcepibile che un autore presenti se stesso. Altro che fiera della vanità.
Ora, la mia critica nasce nel momento in cui leggo, sul sito web del Salone, che il settore Lingua Madre vorrebbe proporsi come punto di incontro tra culture diverse, “un’arena dedicata agli incroci linguistici e culturali che hanno ridisegnato la mappa delle culture mondiali, all’insegna di un intenso scambio di esperienze creative e con il risultato di ibridazioni fascinose, come sempre accade quando lo scambio riguarda espressioni artistiche lontane nello spazio e nel tempo”.
Blablabla.
Nella pratica invece,Lingua Madre, nonostante le belle intenzioni, finisce per essere un circuito chiuso, quasi ghettizzato, all’interno del quale far circolare solo alcuni tipi di incroci linguistici e culturali: più precisamente, quelli extraoccidentali (non posso dire extra-europei perchè tra gli invitati figura anche uno scrittore bulgaro, Georgi Gospodinov, e un’autrice francofona ma di padre montenegrino e madre bosniaca, di nome Jakuta Alikavazovic).
E così facendo, si rischia di rinfocolare quella terribile e temibile idea secondo cui le letterature e le idee extraoccidentali siano una cosa a sé, differenti dal mondo letterario e culturale occidentale e che per questo motivo abbiano bisogno di uno spazio a loro dedicato.
Uno spazio circoscritto e ben individuato, direi quasi etnico.
Poi, se qualcuno mi spiega perchè gli ospiti internazionali siano stati divisi tra “Scrittori dal mondo/Grandi ospiti” e invitati a “Lingua madre” gliene sarò molto grata.