Lipsynch di Robert Lepage: come una metafora della vita

Creato il 09 giugno 2010 da Stampalternativa

Quando ho scoperto che Lipsynch durava nove ore mi sono detto: vabbuò, in sala ci saremo solo io e gli attori. E invece arrivo in questo bell’esemplare di archeologia industriale che è l’ex Birreria di Miano e trovo almeno 400 persone che, come me, avevano resistito alle lusinghe del pranzo domenicale partenopeo. Erano le 14 e gli spettatori, in coda per entrare, si scrutavano a vicenda per scoprire dove mai gli altri avessero nascosto merende e sacchi a pelo. Poi si entra in una sala perfetta, dopo aver attraversato corridoi costeggiati di fantastici tendaggi alti 15 metri.

Tutto predispone al grande evento e anche sul palco si può ammirare una lunga tenda cui faretti color porpora conferiscono un fascino melanconico. Poi si comincia, con una delicata aria operistica eseguita da Rebecca Blankenship, la cantante attrice che impersona Ada. Poi la scena cambia e quello che sembrava una parete diventa l’interno di un aereo, per poi trasformarsi - in un vertiginoso gioco di incastri e rotazioni - in battello, vagone del metro, studio medico, salotto, studio radiofonico, set cinematografico, cucina, locale sudamericano, libreria e perfino loculo cimiteriale.

E in questi ambienti si snodano i fili delle vite dei personaggi, vicende che assomigliano tanto a quelle di ognuno di noi eppure uniche nel loro svolgersi che avviene in parte sotto gli occhi di tutti, in parte in reconditi percorsi carsici. È quello che intende Robert Lepage, il regista-autore canadese, quando paragona il processo di evoluzione artistica dei suoi attori ad un albero di cui il pubblico vede solo corteccia tronco rami e foglie, ma non sa tutto il lavoro che è stato fatto sulla rete invisibile di radici che danno linfa e sostanza a tutta la struttura.
Attori che hanno dato una splendida prova e che, secondo quanto riferisce lo stesso Lepage, si sono impegnati a scavare quanto mai in profondità in loro stessi durante il progetto artistico, soprattutto perché l’attenzione era focalizzata sulla voce, questo “luogo privilegiato di identità e di emozione” che, per essere compresa ci costringe a “scendere là dove si radica”. Questo spiega il lavoro in profondità compiuto dagli attori e spiega anche l’emozione vissuta dal pubblico come sempre accade quando ci si trova di fronte ad un lavoro ben fatto e tanto meglio se dura nove ore.


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