da Versi d’asino
Mio rifugio
mia rondine senza capo né coda
puro volo;
a cosa tornare
senza casa né passo
a quali ali affidarsi
nello spazio senza lingua del limite
a quale fuoco scaldare
le mani senza corpo.
Affidarsi ciechi al tonfo
del volo senza terra
affidarsi
senza destino,
rifugio
rondine senza capo né coda
puro volo.
Venezia giugno 01
*
Assaporo questo nuovo trafitto male
che sulla lingua ha la spada
del tuo nome, nome nuovo, rinnovato
dalla rovina fresca dell’assenza.
Che passi che passi
questo amore che muoia
che io sia presto salva da te
da me dal nulla che mi chiama
che scrivo col fiato
sul costato dei muri
sui fianchi sfiorati dei tram
e sulle luci d’erba della sera
che passi che muoia
salvami regina incoronata di montagne
città-signora.
Torino aprile 02
*
Io è questo confine
che talvolta ti abbraccia?
O l’angelo pacato
che si posa sulla sera,
o il limite del pieno,
io sono i minuti
persi o lavorati? E’ la paura,
il gigante che si siede
caparbio sul tuo petto
lungo le ore notturne del pensiero?
Ferma la farfalla della mente,
cos’è io?
E’ io che incontra tu?
O è il vuoto che abbraccia il vuoto
e io e tu tremanti
si stringono nell’ombra la mano?
E’ io che balbetta davanti al nome
dell’alba e del tramonto mentre
il vuoto immenso ringrazia silenzioso
la meraviglia senza nome
che sorge e passa passa
e sorge? Io è la legge
che non vede se stessa
e le bandierine leggere
che seminano nel vento
alfabeti di preghiera?
Io è la gemma
che hai tra le labbra
che la morte furtiva
farà fiorire baciando?
Un tappeto di preghiera
è io
quando il limite
in te si inchina?
Cravarone luglio 02
*
da Il sonno della casa
Il sofà
Tutti abbiamo un mondo dentro
e tutti sopportiamo la solitudine
dire che dentro di me
ci sono solo molle e legno
è come dire che dentro di voi
ci sono solo cuore fegato o polmoni.
Assisto non impassibile
a vite complesse o frantumate
assorbo discorsi irascibili
o promettenti ma
in questa casa insonne
io sono l’astronave.
Tra le mie strutture a piume
reggo una bambina la nascondo
la porto in alto mare
e in cielo profondo
è un’esperta di derive
di cunicoli scavati nella sostanza
della notte, la conservo tra i cuscini
come un’improvvisa sobrietà.
In questo viaggio di allontanamento
lo so lei sogna
qualcuno che oltrepassi la distanza
senza nulla da offrire
una faccia che tramonti
e si lasci guardare,
una protezione terrestre.
Di forte la bambina
ha solo le spalle
e pensieri che danno alla notte
sonagli di sapienza.
In questa marcia di avvicinamento
stupisco di una confidente intimità
senza pentimenti e saggio
la mia flessibilità
non sotto il peso di una bambina
ma di un dolore
pari a quello di un adulto
ma senza mondo.
Io sono un sofà
che conduce a una visione
aperta
su voi bestemmiatori degli oggetti
ospitando
una ferita di notte polare
in completa nudità.
Soriso agosto 06
*
da Poesie del mondo
Che cosa trema nel pensiero
e che cosa nel sentire
si fa orizzonte?
Le parole nascono
tra noi
noi questo pane buono
del corpo
questo alveare.
Volontariamente sconosciuto
maestro, sgusciandomi
via
mi dai
alla luce.
Affittata al respiro
percorro strade di fiato
che si fanno scene
discretamente ritirandosi
dinnanzi alla forsennata pace
che non cede al bisogno
di capire. C’è un al di là
dell’amore c’è il riposo
da io e tu, solitudine
è essere di tutti. Noi
in cerca di qualcosa di meno,
una calda mano sul capo
capelli inzuppati di benedizioni.
Accettare che la neve
non ci riconosca,
non ci riconosca
l’albero, accettare
che ci salvino
senza proferire parola
senza cura.
Soriso dicembre 07
*
da Per voce di sopravvissuti
Voce di donna
“Sono visione e sono spazzatura,
poso appena al suolo,
dimentico la delicata terra-mano
che mi regge il passo
che non sprofonda
sotto il peso dei tagli,
dimentico l’ala dell’aria
che mi esita intorno e mi sospira
e mi accende il mattino.
Dimentico il corpo del buio,
freno nella notte
in sonno neutro di cosa
inanimata e sola,
senza mistero senza familiarità
d’essere,
pura funzione che respira
vita che attraversa anonima
senza carezza,
buio desolato degli uffici.
Corro dentro il corpo
a pregare un mattino liscio
di parole verdi
senza spine sulla lingua,
sole sbarrato nei vetri,
incisione di antichi segni
nel volto dello specchio:
la bocca sigillata del mondo
ho saputo tardi
che si chiamava dolore.”
Ratanagiri dicembre 07
*
da Pianissimo per non svegliarti
Non essere morte
se vuol dire che mi trascuri
che mi sveglio e si sveglia
con me solo la spina acuminata
dell’assenza. Voglio che tu sia
carezza, sospensione prima
di un abbraccio, corrente.
Trascinami verso di te
come facevi con le parole
sobria brillandole una a una:
sono –
proprio-
contenta –
che –
tu –
sia –
qui -
Come dentro le tue mani ospitali
le mie inezie si tramutavano
in doni grandi.
Sei uno sciame di nulla?
Semini luce?
Sei nella direzione dei gerani rossi?
Sei me?
Prendimi teneramente
nella memoria scalza
nella tua anima di filo forte
nell’invisibile rete:
anch’io
anch’io
senza significati,
sedia impagliata,
teiera,
rubinetto che sgocciola
anch’io
tutto.
E’ troppo breve la vita
per riascoltare la tua voce?
Mandami in sogno parole lunghe
lunghissime
che manchi il tempo
per pronunciarle.
Mandami parole,
che bacino le labbra.
Pensa, la relazione di ora
questa nuova faccia
dell’amore,
la chiamano lutto.
Milano aprile 08
* * *
Nota ad alcuni inediti di Livia Candiani
di Nadia Agustoni
In uno dei saggi di Fuga da Bisanzio sulla poesia di Mandel’štam (Il figlio della civiltà) Iosif Brodskij in apertura scrive: “Per qualche strano motivo l’espressione “morte di un poeta” suona sempre un po’ più concreta che non “vita di un poeta”, Sarà perché “vita” e “poeta” come vocaboli, sono quasi sinonimi nella loro nobile indeterminatezza.” (1) E se per Brodskij “scrivere poesia è un modo, anch’esso, di esercitarsi a morire” (2) e se questo è vero, siamo quindi di fronte al senso e alla paura ultime della vita dove la morte non è un accidente che capita, ma ciò che ci esercita all’attenzione estrema, al cogliere della vita il fulcro, a fare del vivere un fondamento di libertà.
Se è il dato linguistico a distinguere il poeta è anche perché alla lingua egli affida la testimonianza della propria umanità e singolarità, dove il secondo vocabolo non limita il primo, ma lo estende. E’ nel singolare di ognuno che l’universale diviene realtà e nella solitudine davanti alla morte ognuno di noi sa che siamo poco e molto insieme. Se alcuni autori e alcune parole ci aiutano a guardare tutto questo è perché scrutano nella vita portando con sé frammenti di verità che a volte, come ogni “indizio terrestre” sono un ferire la superficie perché ci conduca a dei significati o semplicemente ci dica qualcosa di noi.
Una voce appartata, e Livia Candiani è poeta appartata, riesce a volte a forare una coscienza portando allo scoperto ciò che all’apparenza sfugge a molti: dettagli di una realtà dove si ricompone un tempo in cui non ci sono più né vita né morte, ma una compresenza e una condensazione di elementi a fare sì che leggendo, per un attimo, siamo contemporanei del poeta e nelle sue parole è il mondo stesso ad essere tangibile, sia nella materialità che in un verticale proposito di spazialità dove questa è ampiezza e slancio.
E’ l’autonomia psichica del poeta che dà l’intonazione ai testi: “Io è questo confine/ che talvolta ti abbraccia?/ O l’angelo pacato/ che si posa sulla sera,/ o il limite del pieno,/ io sono i minuti/ persi o lavorati?/ “ e quell’io ha insieme la concreta densità della vita e un pieno che intuiamo, ma che non sappiamo dove realmente stia, se al di qua o al di là di dove noi siamo. A volte siamo in molti luoghi, non sempre geografici e non sempre che ci limitano se: “Io so lei sogna/ qualcuno che oltrepassi la distanza/ senza nulla da offrire/ una faccia che tramonti/ e si lasci guardare, / una protezione terrestre.”
Questa faccia che si lascia guardare è l’indizio con cui Livia Candiani parlando del volto ci dice che è nell’umano ogni potenziale restituzione a una integrità cui troppe volte abbiamo rinunciato o per seguire ideologie o perché a un certo punto viene meno il coraggio di un richiamo a un mondo comune e condiviso. In questi inediti la ricchezza della poesia dell’autrice si dispiega compiutamente. Siamo raggiunti da una lingua che trafigge senza “gridato”, ma proprio per questo si incide e ci storna non da noi, ma da quello che da noi e tra noi ci allontana. Se risulti difficile questa voce non lo so. Certo il suo dire è tutt’altro che minimo.
Si riemerge dall’insieme di queste poesie pensando a quale immagine affidare la nostra percezione e scorgiamo quel centro del Maelström di cui parla un racconto di Edgar Allan Poe. Lì si narra di una discesa che secondo alcuni porta a sfociare altrove: “… altri immaginano invece che nel centro del canale del Maelstrom, ci sia un abisso che entra nel globo terrestre per uscire in qualche altra lontanissima regione: il Golfo di Botnia come viene precisato in un’occasione.” (3) E’ così che una lingua può affidarsi follemente e saviamente a chi, ci si augura, può leggerla e non tradirla.
Note
1) Iosif Brodskij, Il figlio della civiltà in Fuga da Bisanzio, pag. 71; Adelphi 1987
2) ibidem, pag. 71
3) Edgar Allan Poe, Una discesa nel Maelström in Tutti i racconti, pag. 402; Newton e Compton Editori.