Lizzie Doron: racconto la Shoah con ironia

Creato il 07 ottobre 2011 da Andreapomella

Unione Sarda, 6 ottobre 2011 – Si apre oggi a Cagliari il festival Tuttestorie (fino al 9 ottobre all’Exmà, alla Mediateca del Mediterraneo e all’Ospedale Microcitemico) col titolo: “Non dirlo a nessuno! Racconti, visioni e libri che svelano segreti”. Tra i protagonisti della prima giornata la scrittrice israeliana Lizzie Doron, invitata dal presidente del festival David Grossman, che sarà intervistata (con Lia Levi) da Wlodek Goldkorn. Lizzie Doron è figlia di una coppia di sopravvissuti all’Olocausto. I suoi libri, in Italia pubblicati da Giuntina, hanno una caratteristica singolare: parlano della Shoah senza mai nominarla, senza descrivere l’orrore dei campi di sterminio né le esperienze di chi a quell’inferno è sopravvissuto. L’approccio è, per così dire, indiretto, evocativo. «Ma non si tratta di una forma di ritrosia», ci tiene a precisare, «semplicemente preferisco non scrivere di cose che non conosco».

Autrice che ha riscosso in patria un grande successo (è vincitrice di numerosi premi tra cui il Buchman di Yad Vashem nel 2003 e il Jeanette Schoken nel 2007), prima di dedicarsi a tempo pieno all’attività letteraria ha insegnato Linguistica teorica e Scienze cognitive all’università di Tel Aviv. Il suo ultimo libro, Giornate tranquille, è ambientato in un salone di parrucchiere di Tel Aviv in cui alcuni sopravvissuti alla Shoah, dopo anni di silenzio, cominciano timidamente a raccontare le loro storie, il dramma della deportazione nei lager, la persecuzione nazista. Ma se le si fa notare che un salone di parrucchiere è un posto singolare in cui discutere di un argomento impegnativo come la Shoah, lei ribatte in maniera provocatoria: «Un museo sarebbe stato un posto più adatto?».

Quella che è una delle qualità principali della sua scrittura, ossia la capacità di essere ironica, graffiante, emerge anche dal suo modo di essere. «Freud aveva ragione a dire che l’umorismo è il più eminente meccanismo di difesa. Perlomeno lo è in alcuni casi. Tuttavia preferisco credere che l’ironia sia una qualità positiva che alcune persone possiedono come un dono e altre no». Quando le viene chiesto di commentare il risultato di un sondaggio commissionato dallo Yedioth Ahronoth, il quotidiano più venduto in Israele, secondo cui per l’88 per cento degli israeliani lo Stato ebraico è, nonostante tutto, «un posto dove è bello vivere», Lizzie Doron – che è nata e vive a Tel Aviv – conferma: «Israele è effettivamente un bel posto in cui vivere, anche se non sappiamo fare bene la pizza! Abbiamo dei problemi, come ne hanno la maggior parte dei Paesi, ma Israele è un paese giovane, multietnico e pieno di energie positive. Se riuscissimo a risolvere il conflitto col mondo arabo sarebbe un posto ancora migliore, anche per più dell’88% degli israeliani». Poi si schermisce di fronte al problema della costruzione di un’identità nazionale per lo Stato d’Israele. «L’identità non è qualcosa che si “costruisce”. L’identità cambia ogni giorno. Un paese è il risultato di infinite e mutevoli identità. Per caso lì da voi un milanese e un palermitano hanno la stessa identità?».

Sul ruolo della letteratura contemporanea nel processo di pace, tuttavia, ha le idee molto chiare. «Non è compito di noi scrittori israeliani contribuire a tenere alto quel ramo d’ulivo», dice, riferendosi ad Abu Mazen e al suo recente intervento all’assemblea dell’Onu in cui il presidente dell’Anp, citando Arafat, aveva detto: “Non lasciate che il ramo di ulivo cada dalla mia mano”. «Questo semmai è compito della letteratura palestinese», conclude: «Quella israeliana, forse, può aiutare a raccogliere il ramo d’ulivo se cadesse da quella mano. Ma sottolineo “forse”…».

ANDREA POMELLA

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