Lo Hobbit - La Battaglia delle Cinque Armate

Creato il 21 dicembre 2014 da Mattia Allegrucci @Mattia_Alle
Viaggiamo per un attimo indietro nel tempo, a quell'ormai lontano 2001, quando La compagnia dell'anello si concludeva con la morte di Boromir per mano di un guerriero Uruk-hai, vendicato immediatamente da Aragorn. Il ramingo, dopo aver infilzato al torace il nemico, si ritrova faccia a faccia con esso, il quale gli ringhia addosso tutta la sua rabbia e il disprezzo che prova nei confronti degli uomini prima di farsi decapitare dall'erede al trono di Gondor. Quella scena era così reale, così vera, così impressionante che ti pare quasi di toccarlo, quell'Uruk, di respirare il fetido puzzo del suo alito. Torniamo ora al nostro 2014, quando Lo hobbit - La battaglia delle cinque armate offre al pubblico una scena simile (ciò che state per leggere contiene qualche spoiler, ma fidatevi, vi svelerò solo l'essenziale e il prevedibile, nulla di sorprendente): Thorin è sopra il suo acerrimo nemico Azog, detto il profanatore, e gli ha appena piantato la sua spada in mezzo al torace, conficcandogliela fino a perforare il ghiaccio su cui è accasciato l'orco il quale, sorpreso di essere stato ucciso, esala il suo ultimo respiro e muore. Niente da fare: nonostante Peter Jackson ci provi con tutte le sue forze, nulla riesce a comparare le emozioni, il realismo, la concretezza della Terra di Mezzo dei primi anni duemila. Badate bene, anche questo è un buon film, certo, nulla da togliere, ma queste piccolezze (che per me non sono tali, ma tant'è) impediscono allo spettatore di farsi trascinare all'interno di quel mondo, ricordandogli che comunque è solo un film, che nulla è vero, niente è plausibile, è tutto ricreato e ricostruito (in digitale). A maggior ragione a questo terzo capitolo manca qualcosa di importante, oserei dire fondamentale: il cuore. Senza di esso noi non siamo lì con Bilbo, Gandalf e tutti gli altri personaggi dai nomi facilmente confondibili, non sentiamo quel desiderio di entrare a far parte della storia e non volerne uscire più; alla fine del film vogliamo semplicemente andarcene a casa e ritornare alle nostre cose di tutti i giorni, aspettando che qualche vecchissimo amico venga a farci visita per il nostro compleanno. E così, mentre Il signore degli anelli si concludeva con Frodo che partiva verso un destino ignoto, con Aragorn che coronava non solo se stesso ma anche il suo sogno d'amore, con Sam che tornava a casa non più giardiniere ma padre di famiglia, questa nuova trilogia sceglie una conclusione che ci lascia dell'amaro in bocca, quasi come se anche Jackson guardasse con occhio nostalgico i suoi tre precedenti lavori, come se rimpiangesse di non avere usato tutto quanto il suo estro per riportare in vita un mondo realizzato e creato da lui. In fondo Bilbo è ben contento di tornarsene a casa e ricominciare a litigare con i suoi vicini e parenti più o meno lontani, e noi anche, perché questa nuova Contea non l'abbiamo percepita, non l'abbiamo sognata, non l'abbiamo bramata con ogni fibra del nostro essere. Sono film buoni, certo, ma iniziano e finiscono come ogni cosa e, svogliati come sono, non provano ad offrire neppure una scena atta ad essere ricordata per sempre dai fan. Ed è un gran peccato, se si pensa a quanto tempo abbia realmente sprecato Jackson dietro questo ambizioso, pomposo, lento progetto quasi decennale che stancò perfino Guillermo Del Toro e che trova la sua definitiva conclusione in un film che è più nostalgico dello spettatore stesso, il quale non ricorderà null'altro che il momento finale, quell'unico attimo che lo invoglierà a tornare a casa, prendere in mano il cofanetto de La compagnia dell'anello e rivedere quel film con quei momenti così reali, così veri, così impressionanti che ti pare quasi di toccarla, la Contea. Anche senza 48 o 60 fotogrammi al secondo.

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