Mercoledì 17 dicembre è uscito nei cinema Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate, capitolo conclusivo della trilogia fantasy diretta da Peter Jackson e distribuita da Warner Bros. Già molto si è discusso negli anni scorsi sulla reale necessità di ricavare tre film su Lo Hobbit di Tolkien, libro ben più minuto de Il Signore degli Anelli, con le conseguenti accuse di operazione commerciale volta a prolungare gli incassi al botteghino per tre anni consecutivi. E se già qualcuno aveva avuto modo di criticare i precedenti episodi per la loro scarsa fedeltà al materiale originale, con La Battaglia delle Cinque Armate la situazione certo non migliora: le discrepanze sono frequenti e marcate, con aggiunte che cambiano non poco la trama e diversi personaggi che nel romanzo tolkeniano nemmeno compaiono. Più interessante è tuttavia cercare di capire quanto la pellicola possa definirsi riuscita nel concludere le vicende di Bilbo Baggins, Gandalf il Grigio e Thorin Scudodiquercia iniziate sul grande schermo nel 2012 con Un Viaggio Inaspettato, creando un ponte tra le due trilogie.
Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate inizia esattamente dov’era finito La Desolazione di Smaug, con Bilbo e i nani guidati da Thorin ormai giunti alla Montagna Solitaria di Erebor dove hanno risvegliato la furia del drago Smaug, mentre Gandalf è tenuto prigioniero nella fortezza di Dol Guldur. Nel frattempo forze più oscure, guidate da Azog il profanatore, preparano in segreto un attacco ai popoli della Terra di Mezzo. Stavolta la carne al fuoco è davvero tanta: nonostante rappresenti il capitolo conclusivo dell’esalogia, però, Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate è paradossalmente il più corto con “appena” 144 minuti di durata, in attesa di un’edizione estesa già confermata e che arriverà nel corso del 2015. Questa minore lunghezza tuttavia non si sente affatto, a causa della densità di scene di combattimento ed eventi ad alto tasso di spettacolarità.
Assolutamente convincente la prima metà della pellicola, che prepara vorticosamente il terreno per lo scontro conclusivo sviluppando le sotto-trame dei vari personaggi e spiegando le ragioni dietro al comportamento di ogni fazione, dai nani agli elfi silvani fino agli uomini del lago. Dopodichè, epilogo a parte, tutta la seconda parte del film è dedicata appunto alla battaglia da cui deriva il titolo, che dura un’ora buona e coinvolge praticamente tutti i personaggi principali e secondari, da Bard a Thranduil fino a Tauriel. Se da una parte la battaglia richiama l’epica emozionante dell’assedio di Minas Tirith ammirato ne Il Ritorno del Re, dall’altra la sua lunghezza pesa e, verso il finale, rischia persino di far subentrare la noia, per colpa di duelli infiniti, di una comicità un po’ forzata e dell’assenza di dialoghi degni di nota. Purtroppo il problema risiede anche nella sceneggiatura, che non riesce a dare al film il respiro unitario di un grande mosaico: lungo l’arco della battaglia si ha l’impressione di stare assistendo a una serie di duelli isolati, dove i vari eroi agiscono più per conto proprio e a prescindere da quanto fatto dagli altri. Non aiuta, in questo senso, la tendenza a portare al limite estremo personaggi e situazioni, con diverse scene esageratamente pacchiane e in ultima analisi piuttosto inutili, come quasi tutte le scene d’azione con Legolas o la parte che coinvolge Galadriel, Elrond e Saruman a Dol Guldur, che sembra quasi realizzata per fanservice.
Le scene di guerra, pur soddisfacenti, non sfruttano al massimo il loro potenziale: gli scontri infatti mancano di quella fisicità e quella genuina crudezza che rendeva trascinanti e adrenalinici i combattimenti visti ne Il Signore degli Anelli, risultando invece poco incisivi. A tal proposito inoltre non aiuta l’abuso della CGI, usata anche dove non ce ne sarebbe realmente bisogno, incrementando il senso di artificiosità di alcune inquadrature. Lo stesso dicasi per i due villain principali (Sauron a parte), ovvero gli orchi Azog e Bolg, realizzati in computer grafica e scialbi sia per espressività sia per carisma (problema comune a tutta la trilogia de Lo Hobbit). In ogni caso le ambientazioni, da Erebor alla città di Dale, rimangono visivamente affascinanti: la Terra di Mezzo di Jackson è sicuramente la più bella rappresentazione di un mondo fantasy vista al cinema.
La recitazione si attesta su buoni livelli grazie ad attori calati bene nelle rispettive parti. Senza nulla togliere all’ottimo Martin Freeman (Bilbo) e all’eterno Ian McKellen (Gandalf), svettano in particolare le prove attoriali di Richard Armitage (Thorin) e Luke Evans (Bard): il primo maestoso nella figura tenebrosa e “shakesperiana” di un eroe maledetto, il secondo intenso e credibile nel ruolo di un padre di famiglia che si ritrova ad essere responsabile del destino del suo popolo.
In fin dei conti, analizzando Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate e guardando alla trilogia nella sua interezza, non si può non rimanere con un pizzico di amarezza per l’enorme potenziale sfruttato solo in parte. Al pari dei altri episodi, anche questo film non riesce a lanciare messaggi potenti e profondi come quelli della prima trilogia jacksoniana: dove La Battaglia delle Cinque Armate fallisce è nella sua ricerca pretestuosa dell’epicità e della spettacolarità forzata, anche a costo della coerenza e dell’unità narrativa.
Nonostante tutto, il film costituisce un’immensa operazione di intrattenimento e piacerà a chi ha apprezzato i precedenti capitoli de Lo Hobbit, come dimostra l’ampio successo di pubblico da essi ottenuto (oltre due miliardi di dollari incassati). Il finale poi si ricollega esplicitamente a La Compagnia dell’Anello chiudendo un cerchio iniziato tredici anni fa, solo con un po’ di stupore e meraviglia in meno rispetto ad allora. Contando che un adattamento cinematografico de Il Silmarillion appare al momento improbabile, La Battaglia delle Cinque Armate rappresenta dunque l’ultimo viaggio di Peter Jackson nella Terra di Mezzo. E forse, alla fin fine, è meglio così.
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