Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato (3D)

Creato il 07 gennaio 2013 da Af68 @AntonioFalcone1

Inutile menare il can per l’aia, Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato, in attesa degli altri due capitoli (La desolazione di Smaug, 2013; Andata e ritorno, 2014), è di gran lunga inferiore a quanto già espresso dal regista Peter Jackson con la pluripremiata trilogia de Il signore degli anelli (La compagnia dell’anello, 2001; Le due torri, 2002 e Il ritorno del re, 2003) e non rivolgo questa constatazione critica al consistente prodigio tecnico messo in campo, ma, essenzialmente, alla mancanza di una vera e propria emozione, quella che avvolge cuore e mente di magia, capace di prenderti per mano e condurti verso fantasiose, fiabesche, suggestioni.

Ian McKellen

Appare, tra l’altro, di scarsa portata quel respiro epico che inizia ad insinuarsi nel libro con cui J.R.R. Tolkien (Lo Hobbit o la riconquista del tesoro, The Hobbit or There and Back Again,‘37) pone le basi dei racconti successivi, qui paragonabile ad un’affannosa rincorsa volta a compensare la maggiore concentrazione verso una scintillante purezza visiva, in eguale misura ammirevole e fastidiosa. Infatti, a parte un 3d francamente inutile, la scelta di riprendere le immagini a 48 fotogrammi al secondo, in luogo dei canonici 24, ha contribuito a creare uno strano effetto stucchevole, caramelloso, e la storia si dipana, anche visivamente, in maniera meccanica, con scene d’azione estremamente velocizzate e spesso stancanti, anche se, ne convengo, può essere solo una questione d’abitudine.

Martin Freeman

Jackson, già in fase di sceneggiatura, insieme a Fran Walsh, Philippa Boyens e Guillermo Del Toro, prende la via della diluizione cinematografica nel narrare quanto accaduto sessant’anni prima de Il signore degli anelli, disseminando indizi per gli altri due film, e si perde man mano nei rivoli d’una ricostruzione forse minuziosa, ma sin troppo frammentaria e squilibrata.La prima parte (bello il prologo, fiabesco e in veste di continuità-collegamento con le opere precedenti), appare lenta, pedante, didascalica e inutilmente umoristica, con l’ingresso di tredici nani nella dimora di Bilbo Baggins (Martin Freeman), hobbit amante della lettura e della quiete domestica, guidati dal loro principe, Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) e affiancati dal mago Gandalf il grigio (Ian McKellen).
L’allegra brigata intende riconquistare il regno perduto di Erebor, attaccato e conquistato dal drago Smaug, custode dell’immane tesoro, e Bilbo potrà essere, a detta di Gandalf, l’opportuno “scassinatore”, considerando che il guardiano non può avvertirne l’odore.

Richard Armitage

Sembra d’assistere ad una vecchia comica di Stan Laurel e Oliver Hardy: Bilbo piagnucola come il primo e i tredici s’impongono corporalmente sulla scena a guisa del secondo, con in sovrappiù gag d’avanzo ed amene canzoncine.
Riprendendo quanto già scritto, l’epicità è presente a tratti, per esempio nel racconto della distruzione del regno di Erebor o nell’apparizione degli Orchi Pallidi che hanno il loro capo in Azog (Manu Bennet), a cavallo di giganteschi lupi (warg), mentre a prevalere sono toni compiaciuti e manieristici (la comparsa dei Troll, la lunga, statica, scena presso Rivendell, l’avamposto degli Elfi) o propensi al cartone animato (ai tredici nani canterini aggiungerei Radagast il bruno, mago bislacco).

Andy Serkis

Latitano anche le caratterizzazioni dei personaggi, fatta eccezione per Thorin, efficacemente shakespeariano nella sua sete di vendetta e senso d’inadeguatezza nel prendere il comando, e Bilbo, la cui evoluzione da pavido ad intrepido nell’affrontare la vita è ben resa da Freeman, piacevolmente british come impatto complessivo. Al riguardo è da evidenziare quella che a mio avviso è la scena più bella, il confronto tra lo hobbit e Gollum (Andy Serkis in motion capture, un vero mostro di bravura, perdonatemi la facile battuta), quando il primo verrà casualmente in possesso dell’anello, nel buio della grotta dei Goblin: qui abilità registica, bei dialoghi e valide interpretazioni attoriali possono finalmente stringersi la mano.

Peter Jackson

In conclusione, l’impressione è che Jackson, avendo le possibilità di allestire una potente macchina da guerra, con le spalle ben coperte dagli adeguati mezzi a disposizione (nel senso finanziario, dando per scontato l’apporto artistico – autoriale), si sia prodigato per lo più a mettere le carte in tavola, predisponendo una lunga premessa per le prossime puntate. Forse, una volta vista l’opera nel suo complesso potrò esprimere un giudizio definitivo, al momento mi limito ad esternare la mia delusione e un certo rammarico per un viaggio inaspettato, come da titolo, lungo le strade della noia e dello stupore artificioso.

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