Una bici - fonte Internet
Maria stava strizzando il vecchio straccio sopra un catino di acqua calda. La ghiaia, sulla strada, iniziò a crepitare, sempre più forte e sempre più vicina. La paura le ghiacciò le mani. Lo straccio cadde dentro all’acqua scarlatta.
- Ma cosa deve ancora succedere stanotte? – sussurrò con un brivido mentre ruotava rapida la chiavetta del lume a petrolio poggiato sulla tavola.
Gino era riverso sullo schienale della sedia di paglia, le gambe aperte e scomposte, un piede scalzo. Sembrava che sulla sedia ci fosse il sacco di iuta dei tutoli per la stufa. Illuminato dalla sola luce che filtrava dai cerchi dello spolert, l’uomo aveva il colore delle arance e delle barbabietole. Aprì a fatica un occhio, lattiginoso in tutto quel rosso, e bestemmiò. Maria si avvicinò alla finestra e guardò fuori tenendosi appoggiata al muro. La luna era alta, il ghiaccio e la neve rischiaravano la campagna immobile come un’alba senza colori.
- È mio fratello – disse girandosi verso il marito – in bicicletta. Da solo – aggiunse muovendosi verso la porta.
- In bicicletta?
Gino fece per alzarsi, tenendosi allo schienale della sedia ma ci ricadde subito.
Un biascichio rabbioso proveniente dal fondo della cucina accolse Piero mentre varcava la porta annuendo alla sorella. Maria chiuse rapida il battente facendo gemere il chiavistello. Piero riaccese il lume, lo tenne alto e lo avvicinò al viso di Gino. Un opale, uno solo, incastonato in un volto tumefatto, lo stava fissando. Si ritrasse.
- Son riuscito a contrattare per avere io la bicicletta, così te l’ho riportata.
Miseria, Gino. Ho fatto la strada da Palse fin qui infrattandomi per i rovi e guardando tutti i fossi. Temevo fossi finito giù da qualche parte.
E poi c’era anche un posto di blocco dei tedeschi a Borgomeduna stanotte. Ce l’ha detto Celso che veniva su dal cotonificio a fine turno. Hanno preso due dei nostri.
Non si capisce cosa sia successo, però Celso ha sentito dire che uno l’han fatto fuori e poi si son buttati a caccia come falchi. Mi son potuto muovere solo a pericolo passato.
- Tanto… tanto sarai morto appena riuscirò ad rialzarmi di qui – sentenziò l’oscurità.
- Gino! Se tu non fossi mio cognato adesso saresti già arrivato a Tremeacque con un buco in testa; altro che tre cazzotti, una perquisizione e la bicicletta requisita.
Dimmi come si può essere così sbronzi da tirar fuori il libretto dei tedeschi al posto di blocco dei partigiani.
…Ah, a proposito.
Piero tolse dalle tasche della sua vecchia giacchetta il lasciapassare rosa bilingue e un altro foglietto cenciosissimo, piegato e ripiegato e li stampò sul tavolo con una manata che rimbombò per la piccola stanza.
- Mi dispiace – disse Piero avvicinandosi alla sorella – ho fatto quello che potevo.
- Ma no, meno male che c’eri anche tu stanotte. Così impara a non bersi la busta paga e venir a casa diretto – Maria aveva i fulmini negli occhi.
Gino alzò una mano, tossì, poi deglutì, provò a parlare ma non ne uscì che un gorgoglio indecifrabile.
- Certo che in quelle condizioni chissà quando potrà tornare in stabilimento. – disse Piero
Si sedette al tavolo, riprese i documenti recuperati. Li sollevò, uno per mano.
Tasca destra: lasciapassare partigiano; tasca sinistra: lasciapassare dei tedeschi. Poi li lanciò a ventaglio in mezzo al tavolo, sbuffando.
- Guarda per cosa si può rischiare di farsi fare la pelle – masticò fra sé.
- Dammi qua, ché non vadano anche persi, adesso!
Maria prese i documenti. Rimase in piedi con i fogli in mano. Li guardò. Poi si avvicinò e si chinò sulla lampada e alzò la fiamma. Spiegò con cura il foglietto timbrato. Poi aprì l’altro, fissò l’aquila rossa timbrata a destra, il timbro del cotonificio a sinistra, e l’inchiostro blu della macchina da scrivere.
- Der De Marchi Aristide fu Giobatta – lesse. Alzò la testa verso il fratello.
Piero si alzò facendo crocidare la sedia sul pavimento e strappando di mano alla sorella i due fogli.
- Quanti ne avete buttati giù per i fossi stanotte, eh? – disse liquido Gino, tentando di ridere.
- Ma che dici, l’unico cretino che può sbagliare la tasca del paltò sei tu.
- Sì, ma questi non sono i documenti di Gino – disse Maria afferrando la mano del fratello e tirandogliela su, insieme ai documenti, all’altezza degli occhi.
- De Marchi? – Gino si rianimò all’improvviso, come percorso da una scarica.
Sgranò gli occhi, tossì, sputò una boccata di sangue e cominciò:
- De Marchi è uno che lavora in cotonificio con me. Se li sta lisciando tutti per diventare caporeparto. Perché non bastonate lui eh?
Lo si trova più a girare per gli spogliatoi che ai telai. Eh? Leccaculi infame. Perché?
Ha denunciato la Rosa – imprecò – Quattro creature e il secondo non sembra nemmeno tutto giusto. E un marito finito sotto un carro. L’ha denunciata, sì.
Gino continuò a farneticare in solitudine, maledicendo, sparando davanti l’indice teso ad ogni bestemmia, come volesse ammazzarlo con quello, il De Marchi. Si spolmonava tossendo, tirando su con il naso e alzando sempre di più la voce.
- Una pezza di stoffa, fallata, un tela di fine trama che sarà stata di venti centimetri – imprecò nuovamente.
Piero gli si avventò sopra e lo prese per il paltò che ancora indossava. Le mani affondarono nel bavero intriso di sangue e di muco. Cominciò a strattonarlo sempre più forte. Gino finalmente tacque.
- Dimmi dove tieni il lasciapassare partigiano.
- A destra imbecille, lo metto sempre a destra, sono quegli altri che lo tengono a sinistra – gemette, totalmente abbandonato dalla veemenza che fin prima lo aveva animato.
Piero cominciò a frugare freneticamente nelle tasche del paltò del cognato.
- Ma cosa cavolo fai, che me l’hai cavato fuori di tasca tu!
Piero aprì il pugno e guardò alla luce della lampada, l’unica cosa che trovò in una tasca interna: una latta lucida, cilindrica e rossa, di snuff.
- Dove li tiri fuori i soldi per il tabacco, Gino? – domandò Maria.
Gino non rispose, sfinito. Forse svenuto.
- Maria, questo è il paltò di Aristide De Marchi – le rispose Piero.
Maria si portò entrambe le mani alla bocca.
- Povero diavolo.