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Lo Scugnizzo: uno dei simboli della napoletanità. Ma da dove deriva il termine?

Creato il 24 ottobre 2014 da Vesuviolive

scugnizzi

In gergo, questi ragazzi, che si avviano spensieratamente per la strada delle carceri e del domicilio coatto, vengono denominati scugnizzi“. E’ il 1895 quando la parola “scugnizzo” compare per la prima volta in alcuni scritti di Ferdinando Russo, poeta napoletano, chiarendo che la parola circolava nell’ambiente della malavita, o almeno in origine.

La parola scugnizzo, che significa “monello di strada”, è un termine della lingua napoletana entrata a far parte, ormai, anche di quella italiana. Le origini del termine vengono fatte risalire ai periodi successivi all’unificazione d’Italia a Torino, quando si iniziò a diffondere il brigantaggio e la criminalità. Secondo altri studi, il termine “scugnizzo” derivava dal verbo latino “Excuneare” (“rompere con forza”). Secondo alcuni, invece, deriva dal verbo “scugnare”, scalfire. Quello che veniva scalfito era lo strummolo: una rudimentale trottola di legno dotata di una punta di ferro, il perno sul quale la trottola, abilmente manovrata, girava. Lo sfizio di questi ragazzini era quello di “scugnare”, di scheggiare lo strummolo degli altri con la punta di ferro del proprio. Da qui, “scugnizzi.”

Negli scritti di Russo, il termine non designa l’innocente frugoletto un po’ vispo, che siamo abituati a vedere, ma proprio un giovane delinquente abituato a vivere in strada. Scugnizzo non era una parola nota da sempre a tutti i parlanti, quindi sembra da escludere la teoria di derivazione latina, ma è una novità che ha iniziato a diffondersi, ad un certo punto, dall’ambiente gergale, confermando anche il suo iniziale significato, quello, appunto di ‘piccolo delinquente‘.

L’iconografia degli scugnizzi è quella di candidi fanciulli, scalzi con gli abiti lacerati ed una coppola sgualcita sulla testa e spesso rappresentati sorridenti e distesi al sole, ma la loro vita è stata quasi sempre una storia di miseria, analfabetismo e sofferenza. Spesso sono stati al centro di avvenimenti storici cruciali: dalla rivolta di Masaniello a piccoli eroi protagonisti delle Quattro Giornate, che portarono alla cacciata dei tedeschi, oppure la loro partecipazione spontanea e felice alle grandi manifestazioni di giubilo come la festa di Piedigrotta o alle tante altre feste tradizionali, cercando di far dimenticare ai cittadini la tristezza di una vita povera e priva di speranze. Nella cultura popolare, infatti, la figura dello “scugnizzo”, nonostante sia spesso impertinente e ineducato, viene recepito come un personaggio simpatico e positivo, tanto da essere scelto come protagonista di molti film, come L’ultimo scugnizzo (1938), Paisà (1946), Uno scugnizzo a New York (1984), Scugnizzi (1989), ecc.

Ma nessun commediografo ha saputo cogliere la vera essenza degli scugnizzi meglio di Raffaele Viviani, creando una serie di volti tristi o gioiosi ed ha saputo sottolineare il loro carattere derisorio e la loro gioia di vivere, prelevando i protagonisti delle sue opere dai bassifondi ed assegnandogli il compito di denunciare le contraddizioni di una società dove troppo vistose erano le ingiustizie e troppo stridente il divario tra poveri e ricchi.

Lo scugnizzo, oggi, è inteso come un‘inno alla napoletanità, all’arte di arrangiarsi, e soprattutto di riuscire a divertirsi sempre e comunque. E’ un tributo a quell’istinto di sopravvivenza che sta tornando drammaticamente di moda, ma anche alla capacità di non prendersi troppo sul serio che tra le qualità dei napoletani è la più apprezzata da tutti.


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