Lo spaccone e Il colore dei soldi: epopea della sconfitta

Creato il 28 marzo 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco

Gli dei esistevano, popolavano il pianeta Terra e giravano financo film. Uno di questi era Paul Newman, la cui bellezza imbarazzante non era certamente riducibile ai volgari canoni umani. Ho deciso di mantenere questo incipit dalla forma simil-tweet nonostante sia slegato con il prosieguo della recensione per rendere omaggio a uno dei visi più straordinari mai apparso su pellicola cinematografica. L’attore americano raggiunse lo zenit della sua presenza fisica e recitativa nel 1961 con il capolavoro di Robert Rossen Lo spaccone (The Hustler in originale). Tratto dal romanzo omonimo di Walter Tevis il film racconta la storia di Eddie Felson, soprannominato “Eddy Lo svelto”, giocatore di biliardo dalla classe innata, debilitata però da una altrettanto genetica pulsione verso l’autodistruzione. L’opera di Rossen segnò uno spartiacque fondamentale per la categoria dei film “sportivi”. Lo spaccone è infatti un lungometraggio sul biliardo nonostante esso non ne sia il protagonista. In compenso, questo non sta in un cantuccio, non viene relegato al ruolo di cartolina sul cui sfondo si muovono le ben più interessanti vite dei protagonisti. Qui il magnetico tavolo verde attraversa trasversalmente tutte le vicende, è presente in tutte le sale, da quelle più polverose delle bettole di mare, alle ville di milionari annoiati in cerca di brividi nel loro mondo ovattato. Illuminato dalle splendide luci espressionistiche del direttore della fotografia Eugen Schüfftan (l’artista tedesco vinse un meritato Oscar per questo film), Eddie Felson ci viene presentato nelle prime inquadrature come un fessacchiotto rappresentante desideroso di dilapidare i suoi denari all’interno di uno dei tanti bar della provincia americana. Basta un ghigno di Paul Newman e lo schiocco della palla fuoricampo a disorientare lo spettatore e a fargli comprendere che quella a cui ha assistito è una truffa bella e buona, perpetrata al fine di ottenere la quota necessaria per gareggiare con il leggendario giocatore Minnesota Fats.

Questa prima parte oscilla tra toni da noir, western e perfino venature da gangster-movie (si veda la rappresentazione dei vari personaggi, istrionici come quelli della tradizione crime). Il film compie una coraggiosa scelta di narrazione mettendo già nella prima mezz’ora la partita carica di tensione tra Minnesota e Eddie. Il protagonista non viene quindi presentato tramite alcuni graduali specchietti psicologici ma agisce direttamente sulla scena sorprendendo lo spettatore, che ne scopre il guazzabuglio caratteriale tramite gli improvvisi e improvvidi slanci d’umore. Eddie difatti ha cateratte di talento balistico, frenate (e in una certa misura alimentate) però da una sbruffoneria e un’emotività fanciullesche. Il procuratore di Minnesota, Bert Gordon (George C. Scott), si accorge ben presto della maschera indossata da Eddie e decide di sfinirlo sulla distanza, contando anche sulla sua scarsa propensione all’alcool. Così si rivela l’anima di quello che nonostante l’immensa bravura resta un perdente: basta una piccola serie di provocazioni a convincerlo ad accettare a continuare la sfida per tutta la notte. Non è per i soldi che Eddie lo fa, come dice lui stesso al suo socio, è per l’orgoglio di continuare a battere la migliore stecca d’America. A proposito della partita di biliardo c’è da sottolineare l’eleganza della regia che tramite carrelli e inquadrature dall’alto sembra far scivolare lo spettatore assieme alla palla sul tappeto verde. Dopo l’inevitabile sconfitta e l’allontanamento dal compagno di annose scorribande Eddie rimane solo, con in testa l’ossessione di rimettere insieme il denaro per poter gareggiare nuovamente con Minnesota.

In un bar della stazione incontra allora Sarah (interpretata da Piper Laurie, che molti ricorderanno ne I segreti di Twin Peaks), una ragazza zoppa ed alcolizzata, schiaffeggiata dalla vita proprio come lui. La bellezza de Lo spaccone sta proprio qui, nell’elevarsi ben presto nella descrizione di due persone che si auto-esiliano volontariamente ai margini della società (lei ha un ricco padre che la mantiene ma vive in un piccolo appartamento seguendo sporadicamente lezioni universitarie), nel tratteggiare l’altra faccia dell’America del boom capitalistico, quella che a un facile sviluppo borghese preferisce un’esistenza annacquata dall’alcool e giornate trascorse in una pigra indolenza. Esemplificativa è la splendida scena in cui Sarah accetta di andare a convivere con Eddie. L’incontro avviene nuovamente al bar della stazione all’ora di chiusura, con le sedie già poggiate capovolte ai tavolini e la cameriera che spazza a terra. Lei zoppica verso Eddie tenendo la bottiglia di vino in mano, lui la guarda appena un attimo, si alza senza dire una parola, la prende sottobraccio e insieme ciondolano via, sotto lo sguardo indifferente della cameriera che li vede soltanto come due clienti strambi e che probabilmente non crederebbe nemmeno che quella è l’unione di due fidanzati. Fra i due è proprio Sarah che conserva la lucidità maggiore, è lei infatti che riesce ad accorgersi di come Eddie sia “nella fase in cui tutti aspettiamo di essere battuti” per poi passare il nostro tempo a maledire l’avverso destino o qualche losco sgherro di Gordon, di chi cioè ha ordinato che ti rompessero i pollici come conseguenza della tua ennesima spacconata.

Il film continua fino a quando Eddie sembra finalmente stancarsi del suo ruolo da perdente e decide di mettersi sotto l’ala protettrice di Gordon per poter fare un po’ di soldi grazie alla propria bravura percorrendo in lungo e largo l’America. Ma, come si sa, c’è chi nasce con la tragedia nel sangue ed Eddie in più sembra emanare un alone di sconfitta che gli impedisce di accorgersi della distanza che questa nuova vita ha messo tra lui e la sua ragazza. Sarah allora non trova altra soluzione per abbrutirsi e punirsi della piega che gli eventi hanno preso che cedere alle viscide avance di Gordon, consapevole del suo futuro pentimento. Infine, non le resta che il suicidio, che è forse anche un estremo atto d’amore per scrollare dalla sua apatia Eddie. Il drammatico finale vede Eddie ritornare nella stessa bisca della prima partita con Minnesota, per sfidare nuovamente lui e Gordon. Stavolta la struttura circolare della narrazione non ha l’abituale funzione catartica, anzi ben si presta all’amara disillusione di una vittoria sportiva che sa troppo di sconfitta esistenziale. Nemmeno la vittoria fa di Eddie un vincitore, egli è inguaribilmente solo uno spaccone.

Venticinque anni dopo viene affidato a Martin Scorsese il compito di riprendere la storia del personaggio del film di Rossen. Anche questa volta il soggetto è tratto da un romanzo di Walter Tevis e anche questa volta il regista italo-americano affianca alla star principale un cast di tutto rispetto, da Tom Cruise che interpreta lo scavezzacollo Vince, alla deliziosa Mary Elizabeth Mastrantonio fino a due dei più bravi comprimari disponibili ad Hollywood: John Turturro e Forest Whitaker. Il colore dei soldi (The Color of Money) sembrerebbe un soggetto un po’ lontano dalla sensibilità di Scorsese, con il suo cattolicesimo intransigente e il suo moralismo sempre sussurranti anche quando descrive la vita dei delinquenti. E infatti Eddie Felson in questo sequel diventa un altro, lontano dai drammi e dalle tensioni che lo battevano vent’anni prima. Del suo primo grande amore non fa mai menzione e all’inizio del film egli viene addirittura presentato come un vincente, un procacciatore di alcolici che signoreggia sul suo piccolo regno, il bar. La vita lo ha effettivamente cambiato, lo ha svegliato dal suo torpore. Chiuso nel suo piccolo mondo antico, dall’alto del bancone dispensa consigli e metodi spicci per sopravvivere in questa grande e cattiva giungla di cemento. Un giorno incontra Vince, il suo alter ego giovanile, e decide di convogliare il suo talento per il biliardo in un redditizio tour per gli Stati uniti. Lo scontro che si instaura tra i due è naturalmente oltre che generazionale tra le due anime di Eddie, quella del dirompente spaccone che gareggiava per orgoglio, e quella dell’uomo attempato mosso quasi esclusivamente dal “colore dei soldi” più che da quello del biliardo.

La pellicola si snoda secondo una struttura prevedibile e un’indecisione dettata proprio da questa dicotomia. A volte, infatti, il cinefilo Scorsese ricorda la vera cifra del capolavoro di Rossen e bada a inserire alcune scene che diluiscano il carisma di Eddie (vedi il tiro mancino giocatogli da Amos). Altre volte continua a risaltarne l’ingenuità cristallina ma encomiabile (la critica alla cocaina tirata da Julian). A livello registico Scorsese si lascia andare con ebbrezza visibile a virtuosismi tecnici sorprendenti, aiutato dalla bravura balistica di Tom Cruise e Paul Newman, che eseguono personalmente molti dei propri tiri e gli permettono gustose carrellate senza stacchi. Assolutamente a suo agio in interni angusti e poco aerati, egli opta per lo stesso approccio già evidenziato in Toro scatenato: insomma, questa volta è il biliardo ad essere ripreso come se fosse una danza, mentre le palle assumono traiettorie poetiche. Il film trova un ritmo più azzeccato nel finale ad Atlantic City, quando finalmente il trio si separa ed Eddie si intestardisce nel voler partecipare solo contro tutti al grande torneo, di nuovo preda della sua arroganza cieca. Naturalmente arriverà la partita che opporrà il mentore contro il discepolo. Anche questa volta Eddie vince ma è sconfitto dall’acquisita furbizia di Vincent, che si lascia battere per incassare la lauta scommessa. Questa lezione è però meno amara della precedente, meno drammatica, come se la vita (o il decennio, o il regista, fate voi) fosse meno severa. Così nell’ultima inquadratura Eddie può lasciarsi andare a un “Hey, I’m back”, di yuppie civetteria.


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