Lo spallone e le Cayman. Un breve racconto e la riflessione

Creato il 23 ottobre 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Stavolta il mio contributo parte da una narrazione. Reale e realistica, ma quasi (sottolineo il quasi) letteraria.

Un po’ di anni fa, verso la fine del secolo scorso, ero molto in amicizia con una ragazza parecchio più giovane di me. Niente di torbido, sia chiaro. La ragazza era amica mia e anche di mia moglie, ci frequentavamo non separatamente e condividevamo momenti piacevoli.
La ragazza era molto simpatica e molto vitale; non le difettavano la franchezza e un pizzico di sguaiataggine, che sempre mi intriga se è naturale. Era anche molto bella, ma questo non c’entra, o c’entra solo di riflesso.
Essendo giovane, vivace e bella la ragazza aveva stili e ritmi di vita assai diversi dai nostri. E l’amicizia, che era franca e aperta, si nutriva anche di questa curiosità antropologica, appagando la curiosità verso un mondo di aperitivi, discoteche, orari assurdi e trasgressioni che non era il nostro. E che era molto diverso da quello che era stato il nostro passato trasgressivo e irregolare, pure esistito.
La ragazza, per parte sua, frugava tramite noi nel mondo degli adulti, dal quale era attratta. Non mancava di chiedere qualche consiglio, come si fa con dei fratelli maggiori, o forse degli zii ancora abbastanza giovani. Del resto aveva poco più di vent’anni, e io mi avvicinavo ormai alla quarantina; anche mia moglie, che pure è ben più giovane di me, aveva risolutamente doppiato i trenta.
La frequentazione era iniziata per ragioni di lavoro, ma si era trasformata presto in amicizia. E così sarebbe continuata per qualche anno, tra racconti di avventure improbabili, confessioni di pene d’amore, confronto sulle diverse visioni del mondo. Il filo si sarebbe fatto più tenue con il passare del tempo, quando fra noi e la ragazza, cresciuta in fretta, si sarebbe per paradosso fatto più profondo il solco anagrafico, e non necessariamente nel rispetto delle gerarchie ufficiali. Ma questo sarebbe appunto avvenuto più avanti.
A quell’epoca, la ragazza era ancora vogliosa di godere appieno quella che per lei era “la vita”. E, nonostante qualche avventura, qualche storiaccia intricata e qualche pensiero proibito, per un bel po’ di tempo si era mantenuta libera e disponibile, senza legami solidi e men che mai formali.
Un giorno, finalmente, raccontò che aveva una relazione seria, una specie di fidanzato, come si divertiva a chiamarlo. E, naturalmente, ci teneva a farcelo conoscere. Così organizzammo una cena, una delle tante ospitate della compagnia di quei tempi, invitando la ragazza e il suo compagno e un’altra coppia o due (ora non ricordo bene) di amici che pure avevano con lei grande familiarità.

Il fidanzato non era simpatico. Soprattutto, era uno che parlava sempre e solo del suo lavoro. E, ancor peggio, era uno che faceva un lavoro che faticavamo tutti a considerare tale. Era, per quanto si capiva, una specie di moderno spallone, che faceva arrivare (anche fisicamente) capitali nei paradisi fiscali e teneva i rapporti con quei gestori compiacenti. Per cui il suo pur continuo parlare di lavoro era sempre a mezza bocca, tra l’ammiccamento e il segreto da preservare. Se ne coglieva il senso grazie alle continue telefonate che faceva o riceveva col suo cellulare, e ai suoi commenti sbruffoni a corredo.
Era, ai nostri occhi, un mezzo delinquente; dove il mezzo si riferisce più che altro all’involontaria incompiutezza. In verità non posso dire con certezza che tutti i suoi maneggi fossero illegali, anche se aveva il gusto di lasciarlo intendere. Magari certi trasporti di capitale potevano anche trovare qualche appiglio di apparente legalità, ma il senso del suo operare non lasciava dubbi sui mezzi e sui fini.
La serata fu di grande imbarazzo. Avesse almeno cercato di parlare d’altro, di raccontare di viaggi, di mostrare passione per il cinema o lo sport, forse si sarebbe potuto far finta di niente. Invece il tipo aveva l’aria di pavoneggiarsi, si sentiva molto figo per quel che faceva e per le responsabilità che aveva (era anche lui poco più che un ragazzo, in definitiva), e a tutti i presenti durava grande fatica non dirgli in faccia quel che pensavano di lui e dei suoi traffici.
Non lasciammo passare molti giorni per far capire alla nostra amica, con la dovuta educazione ma con l’inequivocabile chiarezza che il rapporto ci consentiva, cosa pensassimo del suo fidanzato. E facemmo intendere molto bene che la sua presenza non era gradita, perché non gli avremmo usato una seconda volta la cortesia di non trattarlo da miserabile bandito.
L’amicizia con la ragazza non ne risentì. Anche perché, per fortuna, il fidanzamento con quel soggetto non durò che qualche settimana.
Non è difficile, per chi mi conosce, sapere dalla lettura di quali fatti di cronaca mi sia venuta la voglia di raccontare questa storia.
Ma, a pensarci, la semplice narrazione si presta a tante altre riflessioni, e si può uscire dai riferimenti troppo evidenti per trasformare l’atteggiamento etico in ontologico, e applicarlo ad altri contesti. Per dire, come già fatto altre volte, al mondo editoriale e ai rapporti tra grandi e piccoli.
Il racconto, però, non ha finalità così dirette. È nato da un impulso: un fatto è riaffiorato alla memoria e si è tradotto in brevissima narrazione, forse soltanto in una semplice traccia. E, quale ne sia l’origine, ci rende un’immagine della società di oggi e dei suoi protagonisti.
È sullo sviluppo di questo processo che vorrei portare la vostra attenzione. La prossima volta.


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