Lo Stato non siamo noi. L’Italia sarà sepolta da una risata internazionale

Creato il 11 marzo 2013 da Conflittiestrategie

C’è un Paese con l’acqua alla gola che ha galleggiato finché ha potuto, imbarcando liquido ma senza gravi allagamenti, intanto che il mare della geopolitica era ancora poco mosso ed i venti della crisi economica piuttosto deboli. Adesso che la tempesta perfetta sta arrivando furiosa, la bagnarola perde pezzi importanti sotto i colpi dei marosi, le sue vele oscillano pericolosamente e i suoi alberi minacciano di spezzarsi a causa delle raffiche d’aria provenienti da ogni punto cardinale, con pressioni opposte che formandosi sulla sua testa si concreteranno, presto o tardi, in una burrasca di proporzioni epocali.

Rischiamo davvero di non salvarci perché privi di rotta e di comandanti valorosi, i quali lanciano sos nel vuoto chiedendo aiuto proprio a chi vuole vederci colare a picco. Così, ci dispiace dirlo ma non è il caso di (se) raconter des histoires , non ci saranno speranze di scampo per questo Paese che non ha saputo leggere i cambiamenti storici e le trasformazioni in atto sullo scacchiere continentale e planetario.

Ma se i capitani che ci hanno guidato sono stati di scarso coraggio, l’equipaggio ha tardato ad ammutinarsi e, comunque, lo ha fatto disordinatamente e confusamente. Sono troppe le narrazioni inverosimili alle quali questo continua a credere, cedevole al frinire di brutte sirene incantatrici e attirato dai castelli in aria di Morgane ingannevoli e letali.

Tra le tante sciocchezze che sentiamo ripetere pappagallescamente vi è quella che noi, povero popolino vituperato, saremmo lo Stato. Ingenuità mista ad ignoranza ci fa battere la lingua sul tamburo dell’illusione laddove c’è soltanto il consenso “estorto” con l’ideologia e la coercizione imposta con l’intimidazione e la brutalità. Questo è lo Stato, gentili signore e signori, egemonia corazzata di coercizione, come sostenne il grande Gramsci. Noi c’entriamo perché siamo centrati in pieno petto dal suo potere e dalla sua capacità di persuasione che, ovviamente, crea anche identificazione spontanea, almeno finché il malcontento non incontra la bastonatura dei suoi corpi speciali.

Ma che cos’è veramente lo Stato? Bella e difficile domanda. Innanzitutto, lo Stato non è un blocco unico ma è costituito da tanti apparati che, seppur in coordinazione, coprono spazi pubblici e svolgono funzioni differenziate: politiche, economiche, sociali, ideologiche con le loro “sottosezioni” giuridiche, assistenzialistiche, amministrative ecc. ecc.  Lo Stato appare come un tutto organico ma le sue deliberazioni unitarie sono la sintesi imperfetta e parziale di un conflitto, visibile esclusivamente in particolari circostanze, tra i gruppi decisionali che occupano le sue “stanze”.  Lo Stato non è il mostro eccessivamente presenzialista da affamare perché sottrae risorse ed energie all’iniziativa privata e al libero mercato, come pensano i liberisti, e non è nemmeno il generoso organo contemperatore degli interessi collettivi, “equalizzatore” di ultima istanza, come credono i socialdemocratici. Gli uni e gli altri bestioni danno poi adito alle bestialità di un Bastiat, secondo il quale dove passano le merci non passano gli eserciti cosicché gli Stati sono ben contenti di non immischiarsi negli affari dei singoli e posso dedicarsi ad altro, cioè a niente.

La lotta accesa tra i drappelli che in esso trasferiscono le loro reciproche tensioni, al fine controllare i suoi settori strategici ed estendere il proprio progetto egemonico sull’intera architettura societaria – battaglia dalla quale discendono decisioni vincolanti per i cittadini del territorio gestito – è continua ed imperitura, può essere invisibile agli occhi ma non smette mai di pulsare. I suoi esiti sono i provvedimenti politici (non tanto e non solo quelli conformi alla legge) nelle diverse sfere collettive, che partendo da visioni peculiari e da specifici interessi materiali devono farsi generali, coinvolgendo blocchi sociali più ampi, al fine rendere i rapporti di forza complessivi più favorevoli ai propri disegni.

Ci siano chiari questi elementi affinché il nostro sostegno allo Stato sia più consapevole e foriero di miglioramenti per la maggior parte degli strati cetuali della nazione. Ed è da questo fraintendimento, difatti, che nascono i nostri gravissimi problemi, figli della degenerazione nella quale siamo precipitati per colpa di un establishment incapace di elaborare una concezione del futuro appena più larga delle proprie ristrette ed arroganti pretese.

Premesso tutto ciò sulla natura dello Stato, dobbiamo registrare lo scadimento interno e la vulnerabilità internazionale delle élite dirigenziali che ci (s)governano, perché quest’ultime non sono in grado di guardare al di là del proprio naso, non riescono a comprendere che i loro interessi, tramutatisi in odiosi privilegi al cospetto del depauperamento della cittadinanza, sarebbero meglio tutelati laddove s’integrassero con un piano di lungo periodo volto alla preservazione della sovranità statale e allo sviluppo della potenza nazionale sul palcoscenico globale.

Lor signori però, vili e ciechi, preferiscono appaltare all’estero le scelte fondamentali preparando la nostra retrocessione nell’area capitalistica delle formazioni pezzenti, dove ci vogliono costringere, per toglierci le eccellenze industriali e gli scampoli di dignità rimastici, i nostri falsi partner occidentali e i competitors delle aree emergenti.

La reazione dell’Italia a tale decadenza è stata flebile e istintiva, catalizzata da un personaggio, un po’ capopopolo un po’ capocomico, il quale se da un lato ha permesso la temporanea interruzione del gioco degli specchi tra i vecchi partiti che fingevano di differenziarsi mentre si scimmiottavano nel degradamento (chi più e chi meno), dall’altro ci sta spingendo nell’irrealtà oltre la specchiera dove abbondano le allucinazioni collettive e le utopie paralizzanti.

Dopo aver versato lacrime e sangue siamo certi che sarà una risata universale a seppellirci. Quella dei nostri concorrenti mondiali. Prepariamoci al peggio.


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