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Lo “strano caso” della ripresa economica dell’Islanda

Creato il 09 giugno 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Maria Serra


Lo “strano caso” della ripresa economica dell’Islanda
La dimensione mediterranea della crisi economico-finanziaria – rappresentata innanzitutto dal default e dall’instabilità politica della Grecia, dal dibattito sulle misure di austerità e sui piani di salvataggio della stessa Atene, nonché dalla recessione in cui sono entrate Italia, Spagna e Portogallo – sembra aver fatto dimenticare momentaneamente quanto è successo e continua ad accadere nell’angolo diagonalmente opposto dell’Europa, ossia in Islanda: qui la crisi economica globale del 2008, innestandosi in un contesto di selvagge pratiche speculative, aveva prodotto un crack finanziario nazionale senza precedenti con rilevanti conseguenze anche sul piano delle relazioni interstatali, fino a coinvolgere i sistemi giudiziari europei. Eppure, come ha riportato lo scorso 21 maggio il Wall Street Journal in un Reportage redatto in loco, proprio nel corso dell’ultimo biennio il governo di Reykjavik sembra aver imboccato la giusta strada per una lenta ma progressiva ripresa economica che, se pur con tutte le varianti e considerazioni derivanti dalla sua non appartenenza allo spazio comunitario, agli occhi di molti attori economici e politici sembra ugualmente lanciare un messaggio forte ad un’Unione Europea in crisi di idee prima ancora che di comuni strategie politiche ed economiche.

Un’ampia politica neoliberale adottata nel corso degli anni Novanta aveva fatto diventare nel giro di un decennio quest’isola di 100.000 Km2 – ma di soli 320.000 abitanti – uno dei Paesi più prosperi dell’Europa e del mondo: nel 2007, un anno prima dello scoppio della crisi, l’Islanda figurava l’ottavo Paese europeo per PIL (circa 10 miliardi di dollari, con un reddito pro-capite di circa 52.764 $) con un altissimo Indice di Sviluppo Umano (14° posto). La deregolamentazione dei tassi d’interesse interni, l’eliminazione dei controlli sui capitali, l’indicizzazione delle obbligazioni finanziarie e la privatizzazione degli istituti di credito nazionali e dei fondi di investimento attuate durante la seconda fase di liberalizzazioni realizzata dopo oltre 50 anni di dirigismo, provocarono una rapida espansione del settore finanziario, alimentarono le pratiche di attrazione di investimenti stranieri destinati a finanziare l’espansione del portafoglio crediti delle banche (tra cui l’istituzione del fondo Icesave nel quale investirono correntisti britannici e olandesi per un valore di 840 milioni di sterline) e, contemporaneamente, lasciarono che alla crescita di questi investimenti corrispondessero progressivamente un indebitamento delle famiglie e delle imprese (oltre il 250% del PIL) e un aumento del debito estero (pari al 550% del PIL, pari ad oltre 3 miliardi di dollari). La crisi globale del 2008, dunque, diede il colpo di grazia ad un sistema economico-finanziario che era al collasso di suo: la corona islandese (ISK), il cui rapporto con l’euro e con il dollaro si era mantenuto stabile fino al 2007 (attestandosi ad 80:1 e a 75:1), andò incontro ad una pesante svalutazione (arrivando a 305:1 e a 245:1); la disoccupazione passò in un solo anno dall’1% all’8% e l’inflazione dal 3,5% al 12,70%.

Il collasso economico – rappresentato dal fallimento e dalla successiva nazionalizzazione nel 2008 delle tre maggiori banche (Landbanki, Kaupthing e Glitnir) – si lega da quel momento a doppio filo con la vita politica ed istituzionale del Paese, oltre che alla questione dei piani di salvataggio proposti dal Fondo Monetario Internazionale (un prestito di oltre 2 miliardi di dollari) e da altri Paesi (tra cui Russia e Giappone), con ricadute sul piano di una nuova stagione di rapporti con alcuni degli Stati europei e con l’Unione Europea stessa. Così, da un lato, la bancarotta modificava in qualche modo la scala dei valori degli Islandesi, aprendo la strada a processi nei confronti dei presunti responsabili della crisi (il Landsdomur, il tribunale speciale che ha competenza sui membri ed ex membri dell’Esecutivo, ha concluso recentemente, non condannando, il processo dell’ex Premier Geir Haarde, mentre l’Interpol ha emanato un mandato d’arresto per l’ex Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson) e ad un nuovo dibattito costituente che già per la fine del 2012 potrebbe portare al varo di una nuova Costituzione. Dall’altro lato, la doppia bocciatura con referendum popolare della manovra di salvataggio proposta dall’Alleanza Socialdemocratica di Johanna Sigurðardottir (che prevedeva la nazionalizzazione del debito) provocava una serie di revisioni – e non un congelamento totale come è stato spesso interpretato – del prestito da parte del FMI [1], irrigidiva i rapporti con Gran Bretagna e Olanda per l’“affaire Icesave” (portandolo davanti alla giustizia europea) e contribuiva a ripensare nuove strategie di risanamento. A partire dal ruolo stesso dell’Islanda in Europa.

Lo “strano caso” della ripresa economica dell’Islanda

PIL Islanda - Fonte: Wall Street Journal

Come evidenziato dallo stesso Wall Street Journal, infatti, la svalutazione dell’ISK ha certamente permesso di favorire le esportazioni ed il turismo, le politiche di espansione della spesa hanno mantenuto pressoché stabile il potere di acquisto e conseguentemente il livello dei consumi, il fallimento delle banche è stato ripagato dagli investitori stranieri e il blocco dei capitali ha evitato fughe di liquidità. Secondo le stime dell’OCSE, il PIL crescerà del 2,4% nel 2013, la disoccupazione dovrebbe scendere al di sotto del 5% e l’inflazione, pur restando oltre i target previsti dalla Banca Centrale d’Islanda, si attesterà intorno al 4% [2]. Sempre secondo l’OCSE pochi Paesi europei possono aspettarsi lo stesso livello di crescita.

Si tratta di un quadro, dunque, destinato in qualche modo anche a rimettere in discussione la scelta di Reykjavik di avvicinarsi all’Unione Europea: nel luglio del 2009 il governo della Sigurðardottir ha presentato al Consiglio dell’UE la domanda di adesione – ricevendo formalmente lo status di candidato all’ingresso nel febbraio 2010 – con lo scopo evidentemente di stabilizzare la moneta e stimolare gli investimenti. Tuttavia, nonostante i negoziati stiano procedendo piuttosto velocemente in quanto l’Islanda rispetta largamente l’aquis communautaire per via della sua appartenenza allo Spazio Economico Europeo (SEE), il processo di integrazione non parrebbe essere così scontato: come riportato dal quotidiano Reykjavik Grapevine, il deputato progressista Vigdis Hauksdottir ha proposto un referendum popolare sull’adesione all’UE. E considerati gli ultimi sondaggi – che vedono i contrari al 54% – nonché alcuni temi cruciali cari alla popolazione islandese (su tutti le quote relative alla pesca), non si può escludere che le trattative con Bruxelles possano subire una battuta d’arresto. Piuttosto, nell’obiettivo di agganciarsi ad una solida moneta unica, sembra farsi strada la possibilità di un ingresso nel dollaro canadese (il loonie): l’instabilità politico-finanziara e il debito troppo alto dell’eurozona e la solidità della moneta nordamericana (al momento questa ha lo stesso valore del dollaro statunitense) – anche alla luce della comune proiezione sullo spazio artico – starebbero spingendo, nonostante le smentite di molti, a pensare a questa eventuale alternativa. Tuttavia, un’altra moneta che Reykjavik potrebbe più realisticamente valutare è la corona norvegese: le relazioni con Oslo sono strette da sempre e da quando nel 2006 gli USA hanno lasciato la Naval Air Station di Kefavlik – avamposto statunitense strategico nel Nord Atlantico durante gli anni della Guerra Fredda –, i due Paesi hanno firmato un accordo bilaterale che prevede la sorveglianza aerea e la difesa da parte norvegese dello spazio aereo islandese. Più che con il Canada, l’Islanda ha inoltre più similarità economiche con la Norvegia: entrambi appartengono all’Associazione Europea di Libero Scambio (AELS), hanno un fiorente mercato di prodotti naturali (quello ittico in primis), nonché lo Stato scandinavo rappresenta per l’isola il quinto partner commerciale (mentre il Canada è il dodicesimo). Infine secondo Eurobarometro gli Islandesi, prima ancora che ai Canadesi, si sentirebbero più vicini ai Danesi e agli Svedesi; ragion per cui un attracco all’economia nordamericana risulta poco realizzabile.

A conti fatti, pur non essendo completamente rientrata l’emergenza, l’Islanda è ben distante dalle criticità dei Paesi mediterranei. In anticipo sui tempi, nel mese di marzo Reykjavik ha restituito al FMI una tranche dei prestiti erogati ed è previsto che il saldo definitivo avvenga già nel 2016.

Difficile dire, però, se non appartenere alla moneta unica e, soprattutto, non aver pagato il debito estero siano state le ricette di successo dell’isola. In effetti queste non sono le uniche motivazioni che lo rendono completamente differente dal caso della Grecia, come lo stesso Report del Wall Street Journal fa intendere: ad iniziare da un divario abissale di abitanti (320mila vs oltre 21 milioni), il mercato islandese resta tutto sommato poco incisivo negli assetti economici complessivi dell’Europa; inoltre l’isola ha un’economia molto più industrializzata e le sue esportazioni rappresentano il 59% del proprio PIL, diversamente dal 24% greco; non di meno l’Islanda ha un’autonomia energetica che la Grecia non ha, aspetto questo che l’Unione Europea dovrebbe potenziare alla luce dell’alta valenza “geo-energetica” che Atene ha nel suo essere ponte tra i Balcani e il Medio Oriente.

La “dimensione nordica” della crisi, dunque, più che rappresentare, come molti vorrebbero, un nuovo modello di politica economica (e non solo), dovrebbe sottolineare come ogni caso sia diverso dall’altro e che le regole di “salvataggio” per un Paese non per forza debbano equivalere a quelle dell’altro. Tutto questo avviene mentre la Grecia si appresta a nuove elezioni, mentre si fanno più insistenti le voci di un imminente ricorso della Spagna (pur sempre la quarta economia dell’eurozona) al FMI e mentre Draghi e Van Rompuy presenteranno al Vertice europeo di fine giugno una road map per una nuova riforma sostanziale dei Trattati che prevede un’unione bancaria, fiscale e politica. Il rischio di ritrovarsi in un nuovo cul de sac è tangibile.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

[1] FMI, Iceland and the International Monetary Fund, updated May 4th 2012


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