Forse perché da New York si sposta a vivere per qualche mese a Los Angeles, e quindi si cala nella luce accecante del benessere americano, al quale naturalmente non sa adattarsi; forse perché, ancora, si porta appresso, per l'appunto, secoli interi o anche solo decenni di modelli di vita e depressione cronica (Allen, certo, ma pure Lenny Bruce, Roth e certi eroi sfigati, ebrei pure loro, di Chabon). Soprattutto, però, perché il suo creatore, il regista e sceneggiatore Baumbach, è l'abituale collaboratore di Wes Anderson, insieme al quale ha dato vita a un vero e proprio universo di alterità, a una specie di resistenza delle emozioni che sfocia in una stupidità rabbiosa e innocente.
In difetto rispetto ad Anderson, in questo e negli altri suoi film (due, Il calamaro e la balena e Il matrimonio di mia sorella), c'è la componente visiva, la mancanza nella regia di uno stile, di uno sguardo, di una follia che non sia solo letteraria. Baumbach, sa scrivere, insomma, sa gettare personaggi fragili in un mondo troppo grosso per loro - che poi è il presupposto di ogni racconto di formazione o deformazione della cultura americana - ma non sa costruire attorno a loro un universo creativo indipendente e credibile.
Lo strano mondo di Greenberg è così un'occasione mancata, un vorrei ma non posso che fa sentire l'assenza di un regista vero dietro la macchina da presa.