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Locarno Festival 2015. Recensione: l’iraniano PARADISE al di sotto delle aspettative

Creato il 08 agosto 2015 da Luigilocatelli

get-21Ma Dar Behesht (Paradise) di Sina Ataeian Dena. Con Dorna Dibaj, Fariba Kamran, Fateme Naghavi, Nahid Moslemi, Roya Afshar. Concorso internazionale.get-22Lo si dava, questo film iraniano, ottimamente posizionato per il pardo. Invece Paradise ha deluso. Una produzione Panahi, e come Taxi Teheran di Panahi (Orso d’oro all’ultima Berlinale) è stato girato senza permssi e in clandestinità. Ritratto della violenza sottotraccia che permea le vite della capitale iraniana. Ma la pista narrativa è labile, la protagonista antipatica e malmostosa. Stile rigoroso e alto-autoriale, ma non basta. Voto 5+
get-23get-24Arrivato in concorso preceduto da un buzz che già lo candicava al pardo. Circonfuso di un’aura di fronda se non resistenza al regime iraniano, con alla produzione Yousuf Panahi, fratello del totem Jafar Panahi fresco vincitore a Berlino con Taxi Teheran. E come il film che s’è portato via l’ultimo Orso d’oro, anche questo Paradise è stato girato senza pernesso, in clandestinità, con immagini rubate qua e là per Teheran secondo astuzie e modi messi a punto da Jafar Panahi. Massimo rispetto per il coraggio. Solo che il risultato è abbastanza modesto, parecchio di sotto alle attese, anche se Sina Ataeian Dena è regista visibilmente non banale, che all’approrccio naturalistico-realistico sa combinare uno stile figurativo sicuro, una visualità austera e rigorosa. Solo che non si capisce quale sia il bersaglio vero di questo racconto, e dove vadano a parare le confuse piste narative. Da quanto si evince dal pressbook l’intenzione sarebbe quella di restituire in cinema la violenza che, pur sottotraccia, pervade la Teheran di oggi e la intossica. La violenza che viene dall’alto e quella che si sprigiona dal basso, dalle viscere della città. L’ordine non regna in  Iran, le pulsioni individuali e pure colletive sfuggono al controllo, creano trame indecifrabili e pericolose. La prima scena è a schermo buio, un dialogo tra donne, si intuisce siano la preside di una scuola e una ragaza in cerca di lavoro come insegnante. Tutto verte intorno allo hijab: “Ma le conosci le regole? sai esattamente quali parti del corpo vanno coperte? Le caviglie possono stare scoperte o no? e la nuca? Devi impararle, le regole, e vestire come si deve se vuoi avere un lavoro”, dice la preside. La ragazza deve aver imparato e ubbidito, visto che la vediamo poi insegnare (ma non sappiamo cosa, mai che ci vemga mostrato) in un’aula scolastica. È depressa, infelice, ma ahinoi di quelle depresse antipatiche e malmostose, sempre un lamentarsi e un frignare: “Devo occuparmi di mia sorella incinta, sono stanca, vorrei un trasferimento in una scuola più vicina a casa”. Ecco, se il regista ce la voleva mostrare come esempio di giovane domna iraniana di oggi oppressa in quanto donna (“Lo hijab non è un’imposizione, è una protezione” dice uno slogan di regime) ha sbagliato i conti, perché non ce la si fa proprio a parteggiare per una piaga del genere. La quale ha dovuto rimandare il marimonio causa morte dei genitori, vive con sorella e cognato e arriva in aula sempre incazzata. Le bambine – trattasi di scuola rigorosamente femminile per preadolescenti e adolescenti – son tutte inchadorate nella loro divisa scolastica che copre le parti del corpo proibite, fan delle grandi adunate simil-sovietihe e simil-fasciste in cortile dove son costrette a mettersi in file rigorose a sorbirsi i discorsi e i proclami della preside che dà la linea (anche di comportamenti privati). Come in un collegio delle fanciulle, ma senza i languori e i lolitismi di tanta letteratura (e cinema) occidentale suo tema. Ci vien suggerito che le poco più che bambine sono modellate, menti e corpi, come regime vuole e impone, che insomma signora mia  per le donne di ogni età la vita è quella che è e il destino tracciato. Due studentesse sono misteriosamente scomparse, forse rapite. Un misterioso stalker in moto segue la protagonista quando esce da scuola. Sembrano una pista narrativa in grado di aprire scenari nuovi, ma non è così, e solo nell’ultima scena ne capiremo il senso. Ecco, 100 minuti per raccontarci questo, che non è molto. L’impressione è che la reticenza cui l’autore è sotretto dall’evidente controllo sul cinema finisca con l’uccidere il film, precipitandolo in un eccesso di non detto, di sottotesti, di allusioni, di ellissi spesso inafferrabili.


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