Listen Up Philip, un film di Alex Ross Perry. Con Jason Schwartzman, Elisabeth Moss, Jonathan Pryce. Concorso internazionale.
Piccoli Woody Allen crescono. Dopo il Baumbach di Frances Ha, arriva l’Alex Ross Perry di questo Listen Up Philip. Commedia bitterseweet, e più bitter che sweet già pasata al Sundance, su uno scrittore dall’ego smisurato, un Grande Antipatico che finisce col farsi il vuoto intorno. Dialoghi scintillanti, come raramente. Non sarebbe male se una commedia vincesse il Pardo. Voto 8 e mezzo
Già tre Locarno fa Alex Ross Perry aveva portato un gran bel film,The Color Wheel, un on the road in bianco e nero bislacco, sghembo e cinico, con un fratello e una sorella nella solita America di provincia disadorna, e con tanto di incesto finale. Proiettato a Cineasti del presente il primo giorno, era passato nell’indifferenza quasi genrale senza tirar su neanche un premio ufficiale. Stavolta il molto talentuoso regsita americano, trent’anni giusti, fa un bel passo in avanti, si emancipa dalle storie di famiglia e costruisce un film più adulto e strutturato, non più racconto di formazione, giustamente promosso nel concorso maggiore del festival, dove sarebbe bello si prendesse il Pardo, anche se i concorrenti non sono pochi, anche se, non avendo le stigmate del film engagé, temo che farà molta fatica a farsi largo. Perché questa è una commedia, o se volete un dramedy. Acida, amara e perfino desolata, anche se si ride parecchio, con personaggi per lo più antipatici se non odiosi, a partire dall’insostenibile protagonista Philip Friedman. Il paradigma di riferimento restano il cinema, il mondo, di Woody Allen, con un po’ di Coen Brothers e parecchio Todd Solondz (che, si sa, è un Woody Allen molto più spietato), con personaggi di simile borghesia intellettuale, anche se non newyorkesi, anche se assai più giovani, con parecchio umore yiddish incorporato e pronto a irrorare di dsincantato ogni battuta, ogni dialogo. Perché questo è film di parola, e film di (alta) scrittura, una scrittura che è la migliore dei tempi recente insieme a quella di Frances Ha di Noam Baumbach, un altro figlio (erede?) di Allen. Al centro di Listen Up Philip c’è uno scrittore (il wes-andersoniano Jason Schwartzman, perfetto) arrivato a pubblicare faticosamente il suo secondo libro, accasato con una ragazza di nome Ashley (Elisabeth Moss), fotografa in grande ascesa e di maggior successo di lui, tanto da mantenerlo e ospitarlo. Non pensiate che il nostro le sia grato, macché; da quella bocca esce solo acido, pronto a corrodere e riversarsi su tutto. Uno spiritello maligno di quelli che hanno il dono di rendersi sgradevoli a chiunque, uomini, donne, animali. Chi sia lo vediamo subito, dalla prima scena, dove prende a male parole una sua ex, colpevole di essere arrivata con cinque minuti di ritardo al loro incontro. Un ometto sempre incazzato e dall’ego smisurato, e gonfio di livore, tanto da odiare tutti, i rivali veri e quelli potenziali, tranne (ma non è poi così sicuro) se stesso. Troverà sorprendentemente supporto, comprensione e rifugio presso uno scrittore anziano carico di una certa gloria (è Jonathan Pryce), stronzo come lui, negato come lui a tenersi intorno amici e persone care. Da lì, dall’incontro con lo scritore illustre, Philip si involerà per una carrierina universitaria come isegnante di scrittura creativi alle matricole. Finisce con Ashley. Arriva un’altra donna, ma anche lei, come tutte le precedenti, passa vicino a Philip e poi se ne va, impossibile far scoppirae quella bolla di narcisismo e autoreferenzialità in cui vive. Ammirevole per un regista così giovane è l’assoluta mancanza di piacioniera, lo sguardo davvero disincantato su uomini e cose del mondo. Si ride, a son risate amarissime. Pochi film ultimi hanno per protagonista un tizio tabto insopportabile, ed è un merito. Stratosferici dialoghi, ma Alex Ross Perry esibisce anche un gusto squisito e una cultura vera, una conoscenza vera del milieu intellettuale americano, soprattutto degli scrittori e di chi dalla scrittura è ossessionato. Chi ha visto il recente documentario su Salinger si sarà reso conto, se mai ci fosse stato bisogno di una conferma, di come solo negli Stati Uniti del Novecento gli scrittori siano diventati delle popstar (Salinger, appunto, e Faulkner, Hemingway), e in parte lo siano ancora oggi. L’osssessione per l’importanza e il ruolo sociale dello scrittore di mestier, traspare pienamente in Listen Up Philip. Alex Ross Perry dipinge il suo Nuovo Scrittore Americano ricalcando fedelmente modelli e prototipi, in un’operazione quasi filologica su comportamenti, ambienti, linguaggi di quella tribù di apartenenza. Quanto questo film sia iperconsaevole lo si vede pure dai dettagli, tutti credibili, per dire, da come si vestono i personaggi. Nessun fashionismo, nessuno stare alla moda, ogni glamour medio e massificato è bandito, trionfa l’eterna immagine, anzi divisa, dello scrittore e della scrittrice novecenteschi, giacche pesanti e vintage anche d’estate, pantaloni larghi e sformati. A incantare in questo film lggero, e insieme colto e profondo, è anche l’uso del voice over, in altri film fastidioso, qui utilizzato (in un bellissimo inglese) per introdurre e incorniciare eventi e personaggi esattamente come le voci narranti in Tackeray o Jane Austen. Peccato solo che il film duri un po’ troppo, un quarto d’ora in meno avrebbe aiutato, la parte di mezzo (la digressione su Ashley) è troppo diluita, i dialoghi non sono tutti a veocità ping pong come dovrebbero. Ma avercene.