Il film parte come una scommessa (vinta) nella sua essenza quasi sperimentale. L'azione infatti è pressoché assente. C'è solo un'auto che va, il traffico notturno, le luci come gioielli cuciti nel velluto della notte a volte sfocati di stanchezza e tensione, e poi dissolvenze su fanali, svincoli e periferie industriali, ogni tanto un po' di pioggia inglese, e Ivan Locke, il cui viaggio imprevisto racchiude tutto il senso e le difficoltà di una vita, divisa tra la continua ricerca di realizzazione personale in un buon lavoro (che ci appassioni e in cui credere) e nella costruzione di una famiglia (che si ama e che ci ami), la gestione dei piccoli-grandi drammi di tutti i giorni, gli imprevisti (o gli errori) che, in qualunque momento, possono far crollare quel grattacielo grande e meraviglioso costruito con tanta pazienza e meticolosa passione, e la necessità di un confronto coraggioso e onesto con i fantasmi del passato.
Qui dentro c'è tutto il dramma di Ivan Locke che si districa attraverso una serie di telefonate e qualche monologo ad accompagnare un viaggio da incubo, come un labirinto esistenziale dal quale Locke cerca disperatamente di uscire pur sapendo che, quando lo farà, non sarà più la stessa persona che era salita in macchina. Sono quindi solo voci, in una dimensione quasi teatrale, a fare da contraltare alla maschera stanca, segnata e disperata, ma anche determinata, fiera e risoluta di uno straordinario Tom Hardy (per intendersi l'antagonista Bane de Il cavaliere oscuro - Il ritorno), che ha girato il film in sole otto notti consecutive. Eppure, nonostante questa staticità, la dinamica emotiva del film - anche proprio grazie all'intensità di Hardy e alla sapiente sceneggiatura - è tale che in qualche momento il dramma umano e personale di Locke assume i connotati del thriller.