Lorenzo Viani, Alla fiera dell’Impruneta

Da Paolorossi

La celebre stampa di Jacopo Callot: La fiera dell’Impruneta e la notizia che in quel bel paese, grigio d’olivi, rosso di pampini, verde di pini, – l’Impruneta si chiamò un tempo In pineta, – nel giorno della fiera si faceva una vera strage di polli e di tordi, infilzati entro schidioni lunghi quanto due soldi di spago, mi hanno spinto su questi colli interchiusi tra Ema e la Greve.

Jacopo Callot – La Fiera dell’Impruneta

Lungo la via che da Firenze sale all’Impruneta dai vetri appannati del torpedone, mostro alitante fetore d’olio e benzina bruciati, scorgevo, ridossati ai muri a secco, i personaggi tanto prediletti dall’incisore spietato di Nancy, zingaro e boemo egli stesso: improvvisatori con la chitarra a tracolla, mendicanti ciechi con la viola nel sacco di juta, il cui manico spunta fuori come un osso di prosciutto del tutto scarnito, accompagnati da ragazzi o da vecchie, cantastorie, merciaioli ambulanti, addottrinati in negromanzie con scimmie o pappagalli, prestigiatori coi bussolotti e la bacchetta magica, e poi quelli che non si perdono mai queste specie di provvidenze: borsaioli e vagabondi.

Contro il torpedone si levavano grucce e bastoni, pugni chiusi, denti acuminati, occhi strabuzzati, abbai di cani. I beati del torpedone rimbalzavano come palle di gomma sui divani a molla e qualcuno si batteva la volta del cranio sul tetto dell’auto, tal altro era preso dal mal di mare e impallidiva come avesse veduto un lupo a bocca spalancata; c’era chi era travagliato dalla benzina: tutti invidiavano quelli che venivan su su, passo passo, sulla via ombreggiata dagli olivi.

Ognun sa che le fiere sono mercati, più solenni dei mercati segnati dal Barbanera, dal Goga Meremeo e dal Sesto Caio Baccelli. In queste specie di barabuglie infernali tutti cercano di approfittarsi di certe franchigie e di concludere buoni affari, tanto i mercanti quanto i compratori. Ma questa è una fiera di quelle particolari: compratori e mercanti a un certo momento stringono patti di verace amistà seduti nella pinetina dopo la chiesa, davanti a dei polli arrostiti alla diavola e a delle cartate di patatine fritte, sottili come le lingue dei gatti.

È la fiera anche dei gatti; quanti ne ho veduti oggi all’Impruneta non ne avevo mai veduti, e tutti avevano da rodere qualcosa.

I sacrificati sono anche i maiali: ho veduto tante rosticciane di bistecche che, così secche com’erano, ad averle inchiodate sulle staminali di una nave di seicento tonnellate c’era da fasciarla tutta.

I ciuchi hanno la loro parte, ma qui son vivi, attruppati in un piazzale, scodati, a orecchi bracchi bracchi, zoppi: fa compassione a vederli; sembra un interminato quadro di Giovanni Fattori, che si muova lentamente.

È con me l’allievo più noto del grande macchiaiolo toscano: Plinio Nomellini, il quale mi ha detto enigmaticamente, accennandomi quegli animali dell’Apocalisse:

– Quelli lì li mangiamo un altro anno.

Delle spettacolose mortadelle rosse come cocomeri, dondolavano dai ferri delle pizzicherie dell’Impruneta. Alla fiera dell’Impruneta hanno libera circolazione accattoni, cantastorie, indovini, sonnambule, ciechi, improvvisatori, poeti che cantano e declamano versi sopra argomenti che vengon loro proposti: il canto dà maggiore risalto alla poesia, e ne asconde, nei gorgheggi accorti, le imperfezioni che non sfuggirebbero a mente riposata. Gli improvvisatori dell’Impruneta hanno memoria pronta e tenace, imaginazione ardente e una particolare attitudine all’armonia del ritmo.

Di solito essi sono braccianti e suonatori ambulanti, si accordano da loro stessi sulle chitarre e, se si associano con qualcuno, lo fanno con qualche scaltro addestrato alla questua, il quale, nei contrattempi, fa loro il controcanto:

«E l’Italia nostra è una centrale
Che non se ne trova nel mondo un’altra uguale.
Mi ritrovai tra animali strani
Coccodrilli, serpenti e cani.
Tu sei la stella mia, tu se’ il mio porto:
A entrare in esso la mia nave affretto».

Buon vino fa buon sangue, buon sangue fa buon intelletto, e dove entra il vino esce la vergogna; canta tu che canto anch’io, l’Impruneta è tutto un canto:

O bella che in Firenze siete nata,
in nella piazza di Santa Maria,
in San Giovanni foste battezzata.

Ma perchè tutta quella folla s’accalca intorno a un grande patibolo, alzato dirimpetto alla chiesa plebana? Un enorme tinello, fatto di doghe spesse, è alzato su di un palco funereo; su di esso è una chiudenda pesante; una gigantesca trivella, del diametro di una quercia millenaria, vi è centrata sopra fra due travi colossali: sembra che da un momento all’altro dalla chiesa debba uscire il condannato al supplizio con il prete accanto e il giudice.

Il tinello è gromato di sangue. Si tratta soltanto di vinaccia da strizzo; quello che pareva un patibolo è soltanto, ingigantito, uno di quegli ordigni con cui i contadini strizzano l’uve. Il finto patibolo è l’ultimo relitto della festa dell’uva che si è celebrata l’altro giorno all’Impruneta: gl’imprunetani e quelli delle altre terre lo guardano incuriositi. Da quel sinistro ordigno, e per tutta la strada che porta alla pinetina che sale un colle discreto, al cui vertice è una nera croce, è tutta una stenderia di pollame infilzato negli spettacolosi schidioni, congegnati a certi girarrosti mossi a braccia con carrucole e corde e catene. Le interiora, chè si fa commercio anche di quelle, e i fegatini sono ammassati su certi tavoloni sanguinolenti; i capi mozzi, dai colli gialli, recisi dalle creste pavonazze, sono su dei ceppi. Uomini dal viso arcigno, forniti di una coltella, decapitano impassibili il pollame, dopo che un loro pari lo ha destramente strozzato. Una fumacea oliata e salata si leva di sotto lo schidione; i carboni sono rimossi da un uomo armato di una forca luciferesca.

Impruneta – Santuario

Ai tempi di Jacopo Callot molta gente si riduceva alla fiera dell’Impruneta a basto di ciuco e di polledro; i quadrupedi bardati venivano attruppati al calcio degli alberi. Oggi al posto dei quadrupedi sono ammassate, a grovigli, a baruffi, a intrighi, le biciclette, pedale contro pedale, manopola contro manopola. I sellini, su quell’abbaglio di nichelature, sembrano ninfee risecchite e i campanelli bianchi fiori palustri. Da molte forche pendono pollastri di primo canto che attendono di essere suppliziati; gallinacci, grogi grogi, croccolano nelle stie. Chiudendo gli occhi par d’essere in un’aia sterminata.

Gli schidioni coi polli già arrosolati sono appoggiati, come aste di guerrieri strani, ad un parapetto. Sono tanti che se l’Impruneta fosse invasa oggi da una tribù di Lestrigoni, che, come ognun sa, ai tempi d’Omero si sfamarono con una schidionata di ulissidi, essi potrebbero riempire i loro stomachi di gigantesche forme e farne anche riposto per la loro regina che dicono sia alta come una montagna.

Su verso il poggio delle Sante Marie, ove nel candido cimitero imprunetano è sepolto Ferdinando Paolieri, – il poeta di questo «natìo borgo selvaggio» –, sopra l’immensa tovaglia verde d’erba, profumata di nepitella, al verde ronzio della pinetina, tra le cantafère degli improvvisatori, una moltitudine d’imprunetani e dei luoghi finitimi ha bivaccato festevole e gioiosa tra schidionate di polli e rosso lume di vino. Poco lontano da questi accampamenti, un muro giallo nudo, da cui spuntano le cime di neri cipressi, tra nuvole bianche erranti sul cielo turchino. Gli antichi raffiguravano così le favole umane. Gli antichi, dopo le esequie dei loro poeti, sacrificavano ad onore del morto dei galletti di primo canto; dopo l’onor del desco ponevano le ossa vicino alla tomba perchè credevano che tutte le notti il poeta udisse, nel cuor della terra, l’annunzio dell’aurora. Una immensa favola bacchica ed agreste sembra tutta questa moltitudine, ebbra di canti e di vino.

Al di là del colossale «strizzo» per le uve, alzato davanti alla chiesa plebana, si scorge un cartello volante: «Mostra d’arte». La chiarissima luce balenante sui colli imprunetani, in queste sale, giunge filtrata da certi velari bianchi: una scialba luce da cenobio, che fonde e soffonde i dipinti appesi in costumato ordine alle opache pareti.

Giovanotti dalle facce apostoliche, eremitiche, ascetiche, girottolano come cenobiti per le vuote stanze e non fanno verbo. Invece che alla fiera dell’Impruneta sembra essere ad un convegno di anacoreti. Una parete della seconda sala raccoglie i dipinti e i bozzetti di Ferdinando Paolieri, tutti dichiaranti il suo amore per l’Impruneta.

Nel centro della piazza turbina l’enorme ombrello di una giostra: mobili cavalli di legno, senza mai stancarsi, si rincorrono tra loro, or portando in groppa fanciulli ora ragazze inebriate. I monelli imprunetani s’aggranfiano ai ferri e son portati via dalla giostra come stracci; il padrone fa sibilare il frustone; un organo smanganato copre gli urli e gli strilli; uno specchio girevole mitraglia di luce e abbacina gli spettatori. Dietro la giostra c’è il vagone zingaresco, verde agro.

Jacopo Callot giunse da queste parti in un baraccone zingaresco, chè, per maggiore libertà, aveva lasciato patria e famiglia e visse con paltoni e girovaghi: visse i suoi personaggi prima di affettarli nel legno o morderli con l’acido nitrico, ed aveva una faccia, a quei tempi, da pestarci sopra il lardo, senza pallori apostolici, velature ascetiche, sopportazioni eremitiche. I personaggi della sua Fiera dell’Impruneta vivono e rivivono.

Un improvvisatore, dopo aver cantato e bevuto, – il vino fa buon sangue, buon sangue fa buon intelletto, e dove entra il vino esce la vergogna, – si era addormentato sopra il parapetto di un fiumiciattolo, nel tumulto della fiera.

Destato da un uomo d’arme, ha detto, ancora trasognato:

«Mi pareva d’essere sulla giostra. Scusate».

(Lorenzo Viani, Alla fiera dell’Impruneta, racconto tratto da “Il nano e la statua nera” )


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