Lorenzo Viani, Angiò navigante dell’Oceano

Da Paolorossi

Il navigante dell’Oceano, Angelo Bertuccelli, nato nei fondi della via Pinciana il 1850, d’estrema piccolezza di corpo, di cranio massiccio, di viso duro con la radice nasale estremamente arcuata e gli occhi sospettosi di un volpacchiotto, era afflitto per il nome che gli avevano dato col battesimo: « Angelo ».

La fortuna volle, a proposito del nome, porgergli una mano: nel paese solevano, pronunciandoli, concentrare i nomi, talchè di Antonio facevano Antò, di Bartolomèo Meo, di Tommaso Tomà, di Giuseppe-Antonio Geppantò, e di Angelo fecero Angiò.

Il nome, così amputato, pronunziato con l’accento esplosivo sull’o terminale, riquadrò subito il nano. Ne diventò addirittura fiero quando, navigando – lungo le spiagge napoletane – su un barcobestia di cinquecento tonnellate comandato da un capitano, che aveva fatto i collegi di Camogli, adulto anche in istoria, seppe tutta la storia degli Angiò.

Viareggio – Fortino sul canale Burlamacca in una foto dei primi del 900 – Foto tratta da ” Viareggio Ieri ” N.19 settembre 1990

Se, quando il nano era di viaggio fresco (cioè con denari per le tasche a iosa), qualcuno, incontrandolo sul pietrato del molo, gli diceva risolutamente, marcando bene l’accento terminale: « Alla grazia d’Angiò! », egli lo invitava subito nella bettola di Calena (un gigante asmatico, che soffiava al banco come un tritone fuori d’acqua) e lì facevano bufera col vino buriano.

Ma il nano era sospettoso. Se scorgeva ai tre tavoli della taverna di Calena persone che non avevano il taglio dei naviganti dell’Oceano, egli s’ammutoliva e soffiava come un cavallo fiumatico.

Un giorno, era seduto ad un tavolinetto un ometto dal viso patito di un San Severino, il quale, vedendo il nano, tentò di attaccar discorso. L’ometto, un pittorello della Versilia, raccontava le sue traversità, condite di calunnie, persecuzioni, amaritudini, esodi: e da ultimo proruppe in una desolata esclamazione, accennando l’Alpi: « O bianchi e duri marmi, che spettatori foste di tanti flagelli, non piangete? ».

Il navigante dell’Oceano, a cui piacevano poco tutti quei daddoli, sbottò:

« Ehi, dico, maestro! Voi che dal parlarmi sembrate un di quelli del paese dove si biascia l’esse, a merenda e a cena, il paese di quel bastardo del Concialana, che ebbe il coraggio di tirare i sassi a Leopoldo di Toscana, dovete sapere, avanti di continuare la vostra intemerata, che siete in terreno che, per diritto sancito, è di spettanza dei vecchi naviganti dell’Oceano ».

Il pittorello, dagli occhietti piccoli come lenticchie, che ne dovevano aver vedute trascorrere delle giornate quaresimali, vedendo il nano passeggiare su e giù per la bottega con l’ardire di un gallo quando sta per svettare il sole, disse umiliato, dimandando l’assenso del padron Calena, che soffiava stralunato:

« Eppure son mesi che speculo indisturbato su queste arene. »

« Un avvezzo e un disvezzo dura tre giorni, » disse arrogante Angiò.

« E io pensavo invece di rilevarvi, e a mano, la fotografia, voi che avete l’ardire di Nicolasito Pertusato, e le sembianze di Don Antonio l’Inglese, anzi del Nino di Vallecas e di Don Giovanni d’Austria. »

Se Angelo Bertuccelli avesse sospettato soltanto che tutti quei personaggi erano i nani dipinti da Diego Velasquez, avrebbe preso il pittorello macilento e lo avrebbe dipinto contro una parete della baracca di Calena; ma, nonostante tutto, quei nomi, misteriosi per lui, lo misero in sofferenza:

« Ehi, dico, maestro; ma in tutti quei nomi non c’è mica tramescolato uno sbeffo? »

« No: segno e santo di croce » disse mortificato il pittore.

« Perchè a me non urtano le cattive parole, ma è lo sbeffo. Se mi assicurate che non c’è menda di sbeffo, avvicinatevi e beviamoci sopra e che tutto sia sepolto. »

Quand’ebbero bevuto un bicchiere di quello di buona pasta, il nano, con la disinvoltura di un vecchio navigante dell’Oceano, prese a parlare degli usi e dei costumi dei popoli. Il pittorello lo ascoltava incantato:

« Ne ho veduti dei pittori là per la Cina, dove intere città son popolate di pittori ed i quadri li istradano per via di mare. A Sciangai i pittori rilevano le barche sui porti e fanno i ritratti dei morti sui pezzami della seta. Gli Etiopi pitturano arene infeste con Cristi neri in penitenza. Nell’Indie basse, sull’Eoo, ho visto raffigurare da quella gente animali diversi, come formiche non minori dei nostri cani, con alberi che colavano il miele dalle fronde. Ho visto pitturare sul Gange, sul Persico, sulle coste della Betica. Questa m’è stata tatuata sulle secche di Barberia » e il nano, aprendo la camicia sul petto mostrò un tatuaggio rosso e celeste, un cuore trafitto da un dardo.

« Lo feci tatuare ai tempi che m’ero intabaccato d’amore con una ragazza, che mi ha fatto bere alla tazza del veleno. Ora son solo al mondo, mi sono stirpato da tutti; ma, a cagione di un giuramento fatto durante un temporale, debbo rimanere per sempre in terra ferma. Penso di costruirmi un ricovero qui, a murata del fratello Calena. »

Viareggio – Lega Navale – Foto tratta da “Nuova Viareggio Ieri” N.13 febbraio 1995

Una quarantina d’anni fa, nel punto medesimo dove ora sorge il bianco edificio della Lega Navale Italiana, a cento braccia dal mare placido, anche la spiaggia di ponente era tutto un mareggiare di tomboli aspriti di straccali marini, soltanto tre baracche, – una a mutuo contatto dell’altra, come per contrastare con più forza all’impeto del libeccio, – sorgevano sulla duna: una era la bettola di Calena, l’altra era lo studio del pittore tribolato e l’ultima era quella del nano Angiò.

Quando nel crudo inverno il mare, spinto dal mare, percosso dal vento, mulinando sulle secche, ingollava la spiaggia, i tre si davano man forte per non essere turbinati dal vento. Quando il mare, mugliando come una mandra di tori, con le sue lingue bavose leccava i tre baraccamenti, quasi per assaggiarli, prima di dargli la boccata decisiva, Angiò usciva fuori e, protendendo il pugno chiuso verso il mare tempestoso, gridava:

« Ora poi mi vergognerei! Noi noiare chi non ti noia! »

Calena, vecchio navigatore dell’Oceano anche lui, si affacciava sull’uscio e col fiato mozzo imprecava contro l’infido mare: « Che mal ti s’è fatto che ci vuoi ridurre sulla nuda terra? ».

Soltanto il pittore si volgeva alle Alpi, che furono spettatrici dei suoi flagelli, e gli chiedeva: « Dite, non piangete ancora? ».

Quando il mare lentamente s’umiliava, rientrando brontolando nel suo seno, e la calita scopriva la battima, che lustrava come un foglio di rame cifrato di stelle marine, i tre uscivano a razzolare la straccatura: ossi di seppia giovevoli per la fusione agli argentieri, limo verde per sfiammare le piaghe, ceppatelle di canne buone per il gelido inverno, e conchiglie, entro cui il pittore tribolato dipingeva mare placido e senza vento, come lo sogna la gente dentro terra. Il nano andava lontano, verso lo spurgo delle fiumare, per far riposto di grande straccatura: cosci di bove, pecore, galline.

Con i tre esseri strani sparirono i baraccamenti loro, non la loro memoria. Calena vive nella memoria dei figli dei figli; centinaia di conchiglie marine appese alle pareti dei salotti buoni, entro cui è dipinto mare placido e senza vento, tramandano la memoria del pittore tribolato Agostino Pilli, nato al Marcaccio presso Seravezza. Del nano Angiò è rimasta, fino a poco tempo fa, in piedi una « Marginetta »; quelle chiesine che solevano farsi per grazia ricevuta ai margini delle vie maestre.

Sopravvive l’epitaffio che il nano fece scrivere da Fortunato di Goma, paranzellaro e poeta, e che fece incidere da uno scalpellino su una pietra.

“ A onor di Dio
A onor di Sant’Antonio
La fece qui murare Angelo Bertuccelli
Uom che nell’onde chiare
Vivea la sua famiglia
Con fatiche e stenti
Sul procelloso mare
Alle burrasche e ai venti
Per grazia ricevuta
Pensò questo di fare
Acciò
Se di qui passi, arresta il passo
E prega il Padovano
E prega Iddio
Che pace eterna implori
All’ombra di costui
Se sei cristiano. ”

Premortigli i grandi amici Calena e Agostino Pilli, Angelo Bertuccelli, sbeffato dai ragazzi per la sua statura meschina, ruppe il giuramento fatto durante un temporale nel golfo della Guascogna: «Padre eterno che sei nei cieli, se mi fai grazia di ritoccar terra ferma, non m’avventuro più sul periglioso mare. Pietà di me, peccatore tristo e meschino! Fai che non debba perire, come il mio cugino Tista, in mezzo al mare!».

Ricevuta la grazia, dopo tanti anni per tema delle sbeffeggiature, il nano armò un gozzo dei remi di punta e di parecchio, dell’arganello, del rastrello da nicchi, dell’arsaglino, delle vele, dei pietroni di zavorra e, non ascoltando i consigli del gigante Fello, col quale aveva fatto patti di verace amistà, in una mattina chiara come un plenilunio, si mise alla vela sul mare placido e senza vento, tanto placido che pareva un dipinto di Agostino Pilli, e tanto celeste che a toccarlo pareva dovesse tingere. Una sturma di ragazzi di sulla spiaggia dissero sorpresi: «Eppure è il nano Angiò».

Quando il nano fu al largo, gli successe come nelle favole: s’addormentò al timone e avvallò in un sonno profondo. Quando si destò, il mare, come fosse stato magagnato dalla demonia, saliva al cielo, scendeva all’Erebo, sghignazzando a pruavia del gozzo di Angiò e schiaffeggiando le vele tombate dal vento impetuoso.

Dalle pietrose cime delle Alpi il nano s’orientò verso il desiato porto: con un estremo anelito tentò tener barca pari; ma il gozzo, abbeverato dalle acque, sbandò in carena. Dalla cima del molo gli urlavano: « A orza! ». Ma il nano non potè più far buon governo del timone e cadde nel mare, dove rimase marmato per l’eternità.

Oggi sull’ossame sepolto della baracca d’Angiò sventola il tricolore della Lega Navale Italiana, e sulla spiaggia, che gli fu estremo morbido sarcofago, all’altezza del Gallinaro, ride la giovinezza inebriata di luce; sui rottami della « Marginetta » s’erge, come la potente ciminiera d’una nave, un gazometro nero e lutulento, recintato d’una muraglia ergastolana.

( Lorenzo Viani, “Angiò navigante dell’Oceano” tratto da “Il nano e la statua nera” )

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