La signora Aristea, antica proprietaria dell’Albergo viareggino, in cui, ai bei tempi, Giuseppe Giusti, come attesta l’epigrafe murata sulla facciata, scrisse versi flagellatori, ornati di tutte le grazie dell’idioma toscano, una sera asseriva che quel signore tarchiato, – dalla barba e dai capelli ricci, dal naso corto e schiacciato di Sileno sotto un’ampia fronte rupestre, con due occhi di fuoco, – il quale, accigliato, tritolava, coi denti acuti, il pan biscottato e beveva vino – «vino non è ch’ei beve, – è un rosso mar» – in quantità, era Giosuè Carducci.
La signora Aristea accennava con grande discrezione agli intimi lo strano signore il quale ogni tanto, quasi a cacciare torbi pensieri, ripeteva:
– Bella è Versilia mia!
Carducc,i la sua camera – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno
I connotati dello strano ospite corrispondevano davvero a quelli della stampa inquadrata nel salotto buono, in cui era effigiato Giosuè Carducci. Il padre della signora Aristea, uno di quei poeti popolani toscani di memoria pronta e tenace, che sanno a memoria interi canti del Tasso, dell’Ariosto e di Dante, un pezzo d’uomo dalle gambe un po’ roncolite per essersi, egli, guardiafili telegrafico, rampicato con gli scarponi artigliati da granfie di ferro sui paloni lungo le vie maestre, – e di lassù cantava, tra voli di rondini e di falchi, – aveva qualcosa di grifagno nel viso: occhi vetrini, naso ad uncino, bocca predace. Il popolano cantore era di sentimenti razionalisti. Quando il misterioso ospite domandò di visitare la camera in cui aveva albergato Giuseppe Giusti, i familiari della signora Aristea lo fissarono dal salotto buono. Quando l’ospite ebbe visitato la camera del poeta di Valdinievole, si accomiatò con bel garbo dalla signora Aristea. Stava per uscire quando l’impetuoso popolano proruppe nella declamazione:
A te, de l’essere
principio immenso,
materia e spirito,
ragione e senso….
Si dice che il misterioso ospite, a quei versi, declamati con tanto calore, rimanesse come incantato, con la maniglia della porta tra le mani; poi, sbatacchiando l’uscio, uscì.
– È lui, è lui! le trombe, le campane!
Le trombe e le campane di Val di Castello, quel giorno medesimo, avevano fatto andare in collera Giosuè Carducci; il misterioso ospite dell’Albergo era proprio lui. Recatosi al paese nativo, all’insaputa di tutti, per rivedere la casetta in cui nacque il 27 luglio del 1835, alle ore 11 di sera, e il paesetto in cui passò l’infanzia («Io della mia infanzia non ho memorie nè belle nè buone nè curiose»), pare si aggirasse tra la casetta e la chiesa in cui fu battezzato, il tragitto di un tiro di schioppo, rannuvolato e accigliato. Forse lo spettro del grave signore, con gran barba nera e con un libro in mano, che, con gridi ed urli, gli aveva conturbato quella pessima giornata della sua infanzia, gli ribalzava incontro con un sottinteso in corpo ed egli, brandendo ancora la fune con la quale giocava al serpente con una bimba dell’età sua, come fosse un flagello, mentalmente gli riurlava:
– Via, via, brutto te! – quando una voce urlò:
– Oh, Giosuè!
Ad aver prestato fede a quella vecchierella dimagrita, dagli occhi vividi e dai capelli bianchi come una roccata di stoppa, vestita di nero, una nonna Lucia senza solennità, che, appena qualche forestiero si approssimava alla casa del Poeta, faceva apparizione da una casupola ridossata al monte, con la chiave della casa, grande, spropositata, fu lei che, quel giorno, riconobbe il Poeta e lo chiamò familiarmente Giosuè, perchè anche lei era, se bene alla lontana, del ceppato carducciano.
– Ma come riconosceste il Poeta, dopo tanti anni?
– Eh, signore! Il sangue non è mica acqua!
Ad aver prestato fede al cavatore dell’Alta Versilia, Zeus, e a un suo compagno, grave come Epaminonda Tebano, là verso l’ottanta, Giosuè Carducci sarebbe stato avvistato al Marcaccio, presso Seravezza, sul portichetto lastricato della casupola di «Cecco Frate» (lo scolopio versiliese Francesco Donati, amico del poeta e primo maestro del Pascoli, in Urbino).
Il volto del Donati, un tempo balenante alfieriana austerità, luminoso e sereno, si era, per un terribile male che lo rodeva, rattratto e aggrinzito e gli occhi appannati da una nube di tedio; la barba sagginata e incolta e i capelli lunghi e sviati gli davano l’aspetto di un eremita mendico.
Lo scolopio, che ai suoi tempi ebbe il capo pieno zeppo di diavolerie poetiche, scendeva, a braccio del cantore di Satana, il poggio sotto cui aspettava un vetturale noleggiato dal Carducci a Massa.
È, in succinto, il racconto che fa il Chiarini di questo incontro nelle memorie carducciane. Un gruppetto di cavatori, insospettito che quel fiero e sdegnoso uomo barbuto, accigliato, fosse il Carducci (i connotati corrispondevano a quelli della stampa che effigiava il Poeta, appesa sulle pareti del «Crocchio»), proruppe istintivamente in una declamazione corale di sondaggio:
A te disfrenasi
il verso ardito
te invoco, o Satana,
re del convito.
Dopo la declamazione, gli sguardi aggufiti dei cavatori, appollaiati sotto uno scheggione, si fissarono in quelli del falco predace, ma nulla vi trapelarono.
Carducci – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno
L’effigie che il Carducci sceglierebbe per sua tra le migliaia che circolano, credo sarebbe quella fatta direttamente su lui da Adriano Cecioni, rustica, scabra, taurina, e quella fotografia del 1860 fatta da qualche ignoto fotografo pistoiese, quel viso plebeo riceppato d’alterigia, con una ciuffaia di capelli ricci e lanosi sulla fronte piatta e dura, gli occhi iracondi, divergenti, la bocca beffarda, il naso schiacciato, il collo lungo e piegato come i falchi catalani, quando stanno per scendere.
Scultura e fotografia tramandano l’immagine del Poeta tal quale se l’è plasmata nella fantasia il popolo di questa terra che della vasta opera di lui conosce soltanto l’Inno a Satana ed il Ça ira.
Tale era l’ansietà, in questi popolani, cresciuti in un’atmosfera carducciana, di conoscere in persona il Poeta che, a ognuno il quale delle immagini descritte avesse avuto i connotati, anche guasti e corrotti, e si aggirasse nei luoghi del Poeta, dopo essere stato inquisitivamente squadrato da capo a piedi, gli si declamavan versi concitati di sondaggio:
Se da le donne tua maschia dolcezza
tenne il mio tosco accento,
io non voglio i tuoi marmi, o Seravezza,
per il mio monumento.
L’ignoto, a questa declamazione, si voltava, associandosi al rammarico che era nella voce del declamatore:
– Pare impossibile! È tanto bello!
E ignoto e declamatore si estasiavano davanti alla varata della «Tacca bianca», il canalone più fulgido del monte Altissimo.
Certi fanaticoni, per i caratteri spiccati che avevano degli uomini più tipici di questa terra versiliese (il Carducci li assommava tutti nel suo volto possente) e un po’ per certa vanità di abile trucco, sembravano – ai semplici – tanti Carducci a spasso. I fanaticoni, con certi libri misteriosi, si aggiravano nei luoghi più collegati ai ricordi carducciani, sicuri che, prima o poi, qualcuno gli avrebbe chiesto:
«Ma lei è parente del Carducci?»
– Il ceppato è quello.
Ventisei anni fa, come oggi, nuvole grigie, portate dal vento, veleggiavano sul cielo, cenerino; mandrie di pecore, come nuvole dense di bufera, andavano sulla via maestra; sulle spalle dei pastori, sotto l’ombrellone verde, che portavano lette bianche e bigie, gli agnelli nati allora. A cavalcioni alle cavalle rossastre, ravvolte in teli neri, alcune donne allattavano le loro creature.
I pioppi dalle stecchite braccia, lineanti il fiume e gli uliveti, eran ghiacciati dal bianco di manifesti listati di nero:
«Cittadini, Giosuè Carducci è morto. La Versilia, che gli dette i natali, non può lasciare che il giorno del dolore trascorra senza che sia udita la sua voce materna».
La voce, che si udiva della Versilia, spenta dal grigiore degli ulivi, era quella del vento che dallo schienale della grande alpe del Gabberi andava al mare a fondersi con la sua romba. Quelli di Val di Castello, che lo avevano visto nascere, esponevano, quasi increduli, il suo ritratto fra tricolori abbrunati e similmente quelli del Fornetto, presso Stazzema, che lo avevano veduto grandicello.
Nessuna imagine corrispondeva all’altra e su tutte era stampato:
«Tal fui qual fremo in quest’imagin viva».
– Come sarà stato lui?
Un foglio della sera portava la maschera di Giosuè Carducci, formata sul vero: gli occhi sigillati sotto l’impero della vasta fronte, la bocca sigillata sotto il naso ricalcato, tutta l’ossatura leonina in rilievo per la fralezza della carne, barba e capelli ricci a svolazzi bianchi, come la spuma del mare.
Lui, più la morte.
(Lorenzo Viani, Carducci a spasso per la Versilia, racconto tratto da “Il cipresso e la vite” )