Lorenzo Viani, «Cecco Frate»

Da Paolorossi

Ai tempi dei tempi sullo spigolo della prima casa di Corvaia, quasi schiacciata dal monte Croce, irto d’aculei neri, stava appoggiato uno spaccasassi cieco seduto sopra un mucchio di sassi cubati, ch’egli, prima di sera, riduceva in macèa da selciare strade. Vicino allo spaccasassi c’era accucciato un cagnaccio nero il quale, quando il cieco malediceva gli automobilisti, abbaiava come il gran cane della morte. Nei giorni di dimostrazione, lo spaccasassi e il cane si vedevano sotto le risvolte di un gonfalone nero su cui abbrividivano bianche le parole: «L’arco che si tende si chiama Bios». 

Cava di marmo

I cavatori di Versilia, abituati a sincopare e a incorporare le parole, il velaccio nero lo chiamavano il «Bios». Nel marzo del 1907 il «Bios», che di solito sventolava tra le sollevazioni della folla esagitata, lo si vide aperto sulla casetta ove nacque Francesco Donati, «Cecco frate», situata sotto i ravaneti del monte Costa, al Marcaccio presso Seravezza. I cavatori avevano voluto associare al nome di Giosuè Carducci quello del suo umile e grande amico Francesco Donati, che del Poeta fu consigliere dotto e ascoltato. Associazione tra Satana e la Croce?

Quando, all’epoca del «Satana», per le vie di Bologna la gente vedeva Giosuè Carducci, tutto fuoco e fiamme, con uno scolopio, estremamente focoso, fulvo di chioma, acceso in volto, con la fronte altissima, gli occhi ceruli, con atteggiamenti e sdegni alfieriani, rimaneva di sasso. Erano da tempo trascorsi i bei tempi, del 1856 e del 1857, in cui il Carducci e il Chiarini convenivano spesso nella cella del padre Donati a San Giovannino, in Firenze, ed egli apprestava con le sue mani agli amici dei ponci mirabili, che stuzzicavano l’estro.

Il Chiarini, – Rodolfo Renier:Un amico del Carducci, – seppe ridarci a memoria un sonetto del Carducci al Donati, che sgorgò da uno di quei festevoli estri giovanili:  

O padre Consagrata, io ti vo’ fare
in nova foggia una laudativa.
O Cecco mio da bene, o mio compare
o padre Consagrata, evviva, evviva.
Evviva chi ti tenne a battezzare,
chi t’allattava e chi ti rivestiva.

Qui, in Versilia, chi primo mi parlò di «Cecco frate» fu un vecchio cavatore, Ubaldo Sarti, a cui lo schianto di una mina aveva scamozzato un braccio. Il vecchio cavatore, aiutandosi coi denti, ricoglieva i sarmenti in un vigneto scassato a piè dell’Altissimo, e, azzannando i salici, sembrava un uomo primitivo che si cibasse di radici rosse.

– «Cecco frate» che io ho udito predicare giù in Seravezza, – l’uomo parlava dalle pianacce di Giustagnana, – era amante del vino nativo, delle poesie scomunicate, del latino e dei sonetti. «Cecco», armato da foco e da taglio, cacceggiava su per queste contrade e cantava come mai s’è più udito. La sua compagnia era di scomunicati e di quelli che potevan più vino in corpo che sulle spalle. Ma cantava come un rosignolo.

Che «Cecco frate» amasse le muse e il vino è chiaro. Egli stesso scrivendo ad un ignoto amico, – Pietrasanta, 6 novembre 1858, – dice:

«….Accetto di essere uno dei compilatori del Poliziano, ma pei primi numeri non ho in pronto alcuna cosa. Degli associati non ho potuto trovarne più che due, nè ho speranza di trovarne altri. È da ieri che sono tornato a Pietrasanta: tutto il settembre e l’ottobre l’ho passati pei monti e boschi cacciando; io non ho fatto altro mai. Ora mi sto confitto in camera a cagione di una bellissima stincatura fattami tra la neve giovedì sera, mentre modestamente avvinazzato, di buia notte e sotto l’ombra dei castagni, pretendevo di andar spedito là dove non era via da vestito di cappa. Intanto mi reca non poca meraviglia come il mio capo sia tutt’ora attaccato al busto, e così quello di due amici miei ch’eran con meco, e che non saltarono meno di me, come non avean bevuto di meno. Basta, e questa la ho raccontata. Il Leopardi non lo comprare altrimenti».

Domandai al vecchio cavatore:
– Ma anche voi, scommetto, bevete?
– Cosa vuole, beve anche il prete all’altare, – rispose; e soggiunse filosoficamente: – Il vino agli uomini e l’acqua agli animali.

Egli, che dopo aver lasciato un braccio nella cava aveva fatto per anni trenta il postino rurale, asserì:
– Chi beve acqua, novantanove su cento, scrive delle lettere anonime.

Ritornato dopo tanti anni su per queste pianacce ho dimandato del vecchio cavatore.
– Sciagure grosse, – mi è stato detto. – Nel salir da Seravezza gli fallì un piede e si spaccò il capo come una noce.
– Morto?
– Secco come un chiodo.

Giosuè Carducci ebbe per «Cecco frate», – mente sicura, propositi fermi, tutto fuoco e fulmini per i tepidi cultori della natìa favella e degli antichi poeti, – un affetto grande e un’ammirazione grandissima. Il 22 gennaio del 1859 il Carducci scrive al Donati:

«E di rime tue nulla? Che hai fatto? Che fai? Una prosa e canzone tua lessi con molto piacere, elegantissima la prima, dignitosa e forbita e immaginosa, come oggi non se ne fa, la seconda».

L’abito non aveva vinto il contrasto dei sentimenti e delle passioni che battagliavano nel cuore di Francesco Donati; dopo i rigori, egli scioglieva al vento il suo spirito torturato

«Prendo a scriverti collo stomaco pieno di ponci e di vino e colla testa piena dei fumi che esalano quei liquori. Da questo esordio sarai indotto a credere che io mi sia in cuccagna o in ben godi. Affeddiddio, ammazzo i dispiaceri e l’uggia coi ponci e col vino, e mi auguro prossima la morte».

È il brano di una lettera che «Cecco frate» scrisse ad un amico da Pietrasanta il 15 novembre del 1857. Quasi nel tempo stesso il Donati scriveva questa Ballata:

Vattene, o ballatetta,
fra ‘l Serchio e la Versilia a la Marina
in vista di novella pellegrina.
Se amor ti guidi e tua buona fortuna,
giugni a la terra accortamente allora
quando l’aria comincia farsi bruna,
e più sente disio chi s’innamora,
e va senza dimora
a quella che di tutte è la più fina
e amor la chiama….

Seravezza

Oggi, giorno d’asciuttore, la conca di Seravezza con le cave, gli ulivi, le case, le carra stridule, i bovi, i greti dei fiumi è come incenerita; gli scheggioni rossi di Ceragiola sembrano calcinati, tutto crepe come sono. Riveggo un fondaco in cui, parecchi anni fa Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che col Donati ebbe tante rassomiglianze, parlò di lui e della sua opera.

– Peccato che bevesse – commentò uno di quegli uomini normali che si impancano sempre con quelli di cuore avventuroso.
– Lei beva la cicuta se crede – commentò all’istante il Ceccardi.

Giù in cantina stavano levando l’olio a quello del monte di Ripa, bianco trasparente che dipinge i volti di lacca, onde celebrare il rito per «Cecco frate» con tutte le convenienze. Gl’intimi di Ceccardo, sapendo di compiacer il poeta, gli dicevano:
– Tu e «Cecco frate» siete gemelli.
– E bè – sospirava Ceccardo.

Un crocchio di Apuani s’era appollaiato sotto una bassa arcata dell’osteria e uno di loro asseriva, chi sa con quale fondamento, che Francesco Donati avesse sofferto d’agorafobia. I più non sapevano di quale malanno si trattasse: Ceccardo, che era sospettoso come un coniglio che qualcuno sparlasse di lui, udito il malanno che avrebbe afflitto «Cecco frate» e per dimostrare che proprio tra lui e il Donati erano gemelli, urlò, tra lo stupore del crocchio:
– Ho sofferto anche quella.

Un giovane filosofo greco, che sapeva di greco e di latino, trovandosi nella comitiva, spicciolò per tutto l’«agrofobia».
– Precisamente – disse grave Ceccardo.

Seravezza

Dopo un’assai lunga vita di travagli spirituali Francesco Donati, disperato del suo destino, si ridusse al Marcaccio presso Seravezza. Su quel poggio, nel giugno del 1877, s’ebbe la visita di Giosuè Carducci e del Chiarini. Carducci in quel tempo era a Massa, mandatovi dal Ministero ad ispezionare quel liceo – è il Chiarini che narra:

«Il 14 mi scrisse una cartolina, invitandomi ad andare a raggiungerlo per recarsi insieme la domenica prossima, 17, a Seravezza a vedere Francesco Donati, ch’era da qualche tempo ammalato».

La gita fu fatta su di una carrozzella. La strada rotabile, da Massa a Seravezza, rasenta precipiti balzi e speroni di monti rassomiglianti a gigantesche prue profondate negli acquitrini. In alto la grand’alpe del Carchio, l’Altissimo, le Panie, e tutto l’impervio paese degli Apuani. Sassaie sanguinanti entro sereni golfi di olivi, rozze croci su poggi terminali, ghirlande di pampini avviticchiate agli olmi, ciocche d’olivi schiappate dalla saetta, branchi di pecore e campani, bovi aggiogati alle mambrucche cariche di statuario, poi Seravezza e il Marcaccio.

Il Marcaccio rimane verso Val Ventosa sulla via che da bimbo fece Giosuè Carducci quando con tutta la famigliola andò ad abitare al Fornetto presso il Ponte a Stazzema.

«E di questo luogo ho vivissima memoria».

Su i tirreni lavacri un’ardua terra
lontano siede, cui de le ventose
spalle protegge genitor di nembi
il sasso d’Appennin.
Bella è Versilia mia!

All’apparir del Carducci e del Chiarini, «Cecco frate», dopo le prime espansioni di gioia e di affetto, si rannuvolò un poco e disse tristamente:

 – Vedete come è ridotto il vostro «Cecco»! Vi ringrazio, amici, che siete venuti a darmi l’ultimo addio.

Il Chiarini tracciò del Donati morente questo tragico ritratto:

«Veramente non c’era più nemmen l’ombra dell’uomo di un tempo. Quella faccia, nella sua alfieriana austerità, luminosa e serena, era divenuta fredda e smorta; la fronte ampia, solcata d’infinite rughe, pareva come rattratta: gli occhi, privi della loro vivezza e mobilità, erano come velati d’una nube di tedio; le guance scarne e infossate. E la barba da parecchi giorni non rasa, e i capelli incolti, e le vesti trasandate davano al povero amico nostro l’aspetto di un uomo che, sentendo d’avere un piè sulla fossa, avesse detto a se stesso. A farmi la toilette per l’altro mondo non ci ho da pensare io».

Sulla facciata della casa ove nacque e morì «Cecco frate» c’è murata una modestissima pietra con su una semplicissima epigrafe, e in fondo, al posto ove comunemente ci si legge: la Famiglia o il Comune, c’è scritto:

L’amico Garfagnini. Q. M. P.

 

( Lorenzo Viani, «Cecco Frate», racconto tratto da “Il cipresso e la vite” )


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