Nei soggiorni che, da giovane giovane, ho fatto nelle grandi città strepitose, spesso conditi di tedio, mi riducevo sovente nei parchi solitari, nei giardinetti appartati, nei cimiteri antichi sulle cui mura una rete fittissima, contesta di edere e cuoricini, pare ammagli i pensieri di tristezze mortali. I viandanti, in quei gorghi vorticosi d’uomini e veicoli, gravitano verso l’«esteriore» e con il pensiero annaspano il nulla.
Un giorno, uno di quei giorni in cui le lucertole sembrano serpi, mi ritrovai al jardin des Plantes, tra le bestie feroci. Parigi rombava da ogni lato. Dei ragazzi puppati dal freddo, per riscaldarsi, facevano il «giro tondo».
On dit qu’ il est un petit vieux
qui vient le soir jeter du sable
dans tous les pauvres petits yeux
des enfants qui sortent de table.
Le loro madri agucchiavano e sforbiciavano fitte fitte con la lingua. Degli uomini trascurati stazionavano torno torno alla cancellata che recingeva la fossa degli orsi. Un ragazzo sciamannato si avvicinò alla cancellata e gettò nella fossa un gatto scarnito. Gli orsi, che parevano slacciati nelle giunture, scattarono bramendo e diluparono il gatto. Un altro ragazzo con un tozzo di pan secco faceva «cincilecca» alle belve; faceva l’atto di tirargli il crostello e poi lo ritraeva; con questa lusinga costringeva gli orsi a star ritti sulle zampe posteriori e a fare quello che si suol dire «ballomanno».
Io mi ero fissato sopra una gabbia in cui si arribisciava sitibonda una iena che aveva gli occhi sobbolliti di sangue. La belva annusava un ciotolone vuoto, contorceva la nervatura alzava il pelame, diacciava la lingua fuor del telaio dei denti e ruggendo percoteva il capo nell’inferriata. Più oltre, davanti alla gabbia di un leone statuario per la solennità, c’era un bimbo acceso di colore, occhi ceruli, capelli di un cherubino, il quale aveva nelle manine color rosa delle pietrine di zucchero. Il re della foresta, al di là delle spranghe, osservava languido, come un accattarotto chiedone, le leccornie del fanciullo. Il ragazzo peritoso tirava una zolla e si ritraeva, il leone con le zampe unghiate faticava a tirare a sè la piccola zolla e, con la lingua bollente, la struggeva in bocca e si riponeva nella posizione monumentale.
Carducci – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno
Questa scena mi si è balenata stamani sfogliando alcune lettere di Ugo Brilli. La nostra generazione ha del Carducci una concezione leonina, anche fisicamente. La maschera stessa di lui squadra, con gli zigomi in alto rilievo, con la ciuffaia della barba attorcinata e le chiome partite in ciocche maestre ci fa sovvenire il leone.
Carducci, per noi, è il satanista ombroso, collerico, dagli occhi fulminanti di sotto la gronda del cappello alla «peona». Il discepolo, di passaggio da Bologna, andò, come soleva, a riverire il maestro. Egli era seduto al tavolo del suo studio, la fiera testa scarduffata, eretta sulle spalle, le mani poggiate sui braccioli: statuario. Ugo, peritoso, si fermò a due passi dal maestro e, timido timido, trasse di tasca un involtino e lo pose sul tavolo. Giosuè lacerò l’involucro e, oh meraviglia! una diecina di caramelle si sparpagliarono tra le carte; il maestro guardò stupefatto il Brilli.
– Oh, maghetto maghetto, vuoi tu placare la belva con i dolciumi?
Le caramelle avevano una fasciatura di grande dignità: carta al tino con su impresse le stampe che decorano le cronache del Sercambi; Lucca turrita, guerrieri, lucchi, scudi e celate. Sopra uno stampo rosso mattone un nome: Alfredo Caselli: il droghiere per cui Pascoli cantò.
Se tu sei nulla, noi siamo nulli
che in tutto, Alfredo, simile io t’amo.
Per le fanciulle, per i fanciulli
noi lavoriamo.
Abbiamo per loro sempre qualcosa
mentre la vita già li tormenta:
sempre qualcosa che sa di rosa
d’uva di menta.
Giosuè Carducci, memore dei versi scritti alla bottiglieria Ravinazzi, una sera dell’ottobre del 1879 allorchè il maghetto divorava certi pasticcini:
Ei mangia mangia i confortini.
ei mangia mangia, e mai sazio non par:
confortini non son, son gli Appennini:
vino non è ch’ei beve, è un rosso mar.
È il rosso mar del sangue dei cialtroni.
perdonò il maghetto, anzi trovò squisite le caramelle lucchesi e manifestò il desiderio di averne una scatolona. Nel frattempo le caramelle ebbero una medaglia d’oro a Nizza e il droghiere s’ebbe il compiacimento dal Pascoli:
«Carissimo Alfredo, prima di tutto un gran rallegramento per la tua medaglia d’oro…. noi siamo tutti e due grandi guadagnatori di medaglie d’oro. Ti annunzio prossima un’odicina a proposito delle caramelle che avrà per motto: Virginibus puerisque, e conterrà un paragone tra me e te».
Alfredo, è un’ape certo il poeta
ma che non punge.
Prenda chi vuole, prenda chi viene,
prenda di grama voglia e non possa
anche chi scende, vivo, in catene
nella sua fossa
Mentre la pena l’urge, crudele
più di lui stesso che fu pur tanto
tanto crudele; senta il tuo miele,
senta il mio canto.
Pascoli
Premio ambitissimo per il Caselli, droghiere e poeta, fu il desiderio di Giosuè Carducci:
«Mio caro Brilli, ci voleva proprio la sua lettera di stamani per mettermi il diavolo in corpo e per darmi tanta consolazione. E subito mi sono messo a farle da me, le caramelle, e le ho fatte con orgasmo, con un certo battito di cuore che poche volte avevo provato. Stasera è partita la scatola diretta presso Zanichelli il quale ho separatamente pregato di pagare il dazio e di farla recapitare alla casa del Maestro e l’ho anche scritto: proprio io Alfredo figlio di Carluccio Caselli che osa scrivere a Lui. Ho cercato d’essere semplice e sincero senza tante caricature. Vorrei assicurarla che io non voglio nemmeno la carta di visita: a me basta l’orgoglio, la soddisfazione intima di essere aggredito dal Maestro. Giovannino (Pascoli) è passato stamani; anche lui era in grande orgasmo».
Alfredo Caselli, mercante e ospite di Giovanni Pascoli, e di quanti amici della poesia passavano da Lucca, fu anche consigliere saggissimo del cantore di Castelvecchio:
«Vorrei domandarti un consiglio serio, ponderato sull’acquisto del mio Castellaccio. Sarebbe un affare che si potrebbe forse fare. Avrei voluto sapere da te se, consegnando a Lucca il mio oro, – l’oro delle medaglie vinte nei concorsi internazionali di latino, – a una banca, io potrei essere ammesso al credito. L’oro depositato in una banca starebbe più sicuro che in casa mia e specialmente per viaggio».
Il Castellaccio a cui allude il Pascoli è la casetta di Castelvecchio, oggi monumento nazionale. La notte che il Pascoli e Maria vi si addormentaron padroni, tutto il borghigiano, Castelvecchio, Caprona, Albiano, fu scosso dal terremoto.
«Che destino! La prima notte ch’essa poteva dirsi nostra e che noi l’occupavamo da padroni, ecco comincia a traballare, tra forti assidui rombi o soffi sotterranei, come se una grossa bestia sbuffasse e minacciasse e scotesse la vecchia casa…. Ma la grossa bestia non prevarrà».
La casa s’abbellì di fiori e il giardinetto di piante.
Caro Alfredo, l’alberino color Serchio
è piantato nel giardino:
ha qualche rosina in cerchio.
O bell’alberino mezzo
tra l’ulivo e il pino!
Vorrei che fosse già grande,
per metterci le ghirlande
di calendule e crisantemi
e di rose appassite.
Albero glauco perchè tremi?
perchè vedi nuda la vite?
perchè vedi cader le foglie?
perchè vedi cader la vite?
E nessuno le raccoglie.
Il vento le porta via.
Tutti cenere e ombra oggi: Giosuè, Pascoli, Brilli e l’umile droghiere. Io mi fingo vederli raffigurati in una di quelle litografie, così care ai nostri avi; spettri avvolti in grandi manti di dignità, cinto, i maggiori, il capo di una corona di lauro, vaganti tra nuvole di bambagia, con il poeta di Castelvecchio che introduce l’ombra umile nel gran Concilio:
Se tu sei nulla: noi siamo nulli!
( Lorenzo Viani, Confortini e caramelle. racconto tratto da “Il cipresso e la vite” )