Lorenzo Viani, L’amico Vincenzo Monti

Da Paolorossi

Trascorreva l’anno 1898, quello funestato dalle rivolte della disperazione e della fame. Folle esagitate, attruppate dietro labari neri, percorrevano i paesi, stazionavano davanti ai forni e fischiando frantumavano la vetraglia; gli sporti si chiudevano, come sbatacchiati da una raffica di vento.

– Bianchiscono il pane macinando cornocchi di gran turco commisti ad ossa di bove!
– Gli danno il peso con polvere di marmo!
– Al Comune! Al Comune!

I sindaci, pallidi e convulsi, promettevano.

– Siamo stanchi di promesse.
– Ebbene, domani si aprirà lo «Spaccio Comunale».
– Bene!

Il Comune dette ordine immediato di requisire un forno, spento da tanti anni, lo fe’ dilezzolare, imbiancare, scialbare. Sulle cantonate del paese apparve un manifesto fresco d’inchiostro e che sapeva di petrolio, bianco e nero come gli avvisi funebri: «Cittadini! domani si aprirà lo «Spaccio Comunale», ognun vigili, ecc.».

Non era ancora in circolazione la parola «calmiere», questa la si adoperava per significare che uno vedeva le cose con moderazione. La parola «spaccio» dette l’idea che si spacciasse per verace amistà.

Nel corso della notte un imbianchino, che sapeva anche disegnare lettere, scrisse, sopra un telo di cambrì, le parole magiche «Spaccio Comunale», e il telo intelaiato fu posto come insegna sul forno requisito.

La poveraglia s’affilò allo «Spaccio» come soglion far l’anguille di calata al focone acceso dal pescatore. Molta folla faceva comunella sulla «Piazza Grande», spiata dalle autorità arcigne e sospettose.

Viareggio – Piazza Grande – Inizi 900 – Foto tratta da “Viareggio Ieri” N.00-maggio 1988

Il rotolìo delle carra, sulle vie maestre, era ascoltato da gente pietrificata nello stupore:

– Che si tratti di colpi di cannone spenti dalla lontananza?
– Esplosione di ponti minati?

Tuoni, terribili tuoni, frantumavano il cielo dalla parte di ponente. Sulla Capraia balenava giallo.

– Saran tuoni?
– Sarà il cannone della Spezia?

Il mare, franto e rinfranto dal libecciolo, accavallava tremiti su tremiti.

Il dietrostanza dello «Spaccio Comunale» diventò il ricettacolo di parecchi giovinastri che avevano il capo bollente come l’altana del forno; un di loro che si era scaltrito là per la Francia denominò il luogo: «Propugnacolo», benchè di bastioni, nel dietrostanza, ci fossero soltanto quelli di balle di fior di farina, ma il medesimo giovanotto asserì che queste, sulle barricate, attutiscono, attufano, e diacciano le palle di fucile.

Un altro giovinotto, a cui la famiglia aveva inflitto gli studi, introdusse nel «Propugnacolo» un libro: Tragedie di Vincenzo Monti. Lo studente ragguagliò i compagni, tutti uomini di pena, che il Monti era nato là per la Romagna, in quella terra dove la gente è prima alle mani che alle parole.

– Tutti così bisognerebbe essere!
– Silenzio… – La ronda batteva il passo sul marciapiede dirimpetto.

Dunque questo tomo contiene tre tragedie: Aristodemo, Cajo Gracco, Galeotto Manfredi.

– I nomi son tutti belli!

Cominciò la lettura una sera che fuori faceva guasto l’uragano; una magnolia altissima dalle foglie zincate che ombrava l’orto, sotto il vento, crepitava come la fucileria.

Gli ascoltatori parevano soldati di vedetta acquattati sopra una trincea spropositata chè le balle erano d’un quintale l’una.

I lai dolorosi d’Aristodemo a Gonippo, le lunghe lamentazioni del visionario, i rimorsi: – Ebben, che vuol mia figlia? S’io la svenai, la piansi ancora. Non basta per vendicarla?… tediarono l’uditorio.

Anche la disperazione di Aristodemo, che finalmente il condusse a darsi la morte sul sepolcro della trafitta, fu trovata esagerata.

– Giusto il castigo, trasmodata l’ambizione, abominevole il delitto, ma… ma per noi ci vuol altro…
– Udite?! Sparano in vetta al Gabberi.
– I colpi si avvicinano. Tirano alle porte del paese!
– Silenzio!

I bovi mansueti trainavano le carra del falasco sulle vie maestre. L’argomento del Caio Gracco, letto con tono d’acredine, dal giovinetto studente, perchè egli andava matto per l’Aristodemo, riquadrò subito ai giovinastri:

– Questa è roba per i nostri denti.

Spiegato che i liberti erano schiavi fatti liberi e che i tribuni eran gente di tribunale di quei tempi e che il Foro romano a quei tempi non era la tritumaglia d’oggidì, il giovanetto lesse il monologo di Cajo con voce bassa e cupa come parlano gli spettri sulle scene.

– Ho già capito l’arcano, – commentò uno. – Cajo è dei nostri.

L’apparizione di Fulvio con il suo parlare risoluto, esasperato, concitato, estremo, il suo odio pietrificato contro i patrizi, messe in secondo piano Cajo.

– Rileggi la scena
– Va, tel ripeto; o tu non sei più Gracco, o tu deliri!
– No, l’altra!
– Stolto! alla sua morte ei corse. M’è necessaria la sua testa. Un troppo terribile segreto ella racchiude, e demenza saria… Ma chi s’appressa? Son tradito?…
– Chi sei? Parla!

Gli affamati di Numanzia, i quattrocento giovinetti di Luzia, con le monche mani sanguinanti ai genitor renduti, il cadavere di Tiberio gettato nel Tebro, passavano sulla bocca del forno come spettri d’Averno. Cajo, col suo filosofeggiare e non dar corso rapido all’azione, perdè terreno.

– Vedrai che per la sua perplessità gliene incoglierà male.
– In questo dono ti riconosco, o madre. In questo colpo riconosci tu il figlio.

Egli muore.

– Lo dicevo! Ma come! Avere alla portata di mano un uomo ferrato come Fulvio e condursi al punto di darsi da se medesimo la morte.

Comunque tutti si dolsero che questa tragedia non venisse mai rappresentata.

– Non è stata mai rappresentata?
– Mai e poi di là da mai.

Lo asserì il mastrante che nell’altra stanza calciava il levame e un tombolo di pasta. Tutti tacquero perchè lui era capo delle comparse, e i cinque figli che aveva si chiamavano: Odissea, Desdemona, Valeriano, Valkiria, Macbeth; tutta gente, quella, di teatro schietto.

I tempi non si rischiaravano nè tanto nè poco; i giovinastri si divagavano leggendo il Cajo Gracco. Monti gli era ormai familiare:

– Metti fuori il tomo dell’amico Vincenzo Monti.

Qualcuno dilatò:

– Metti fuori il tomo del compagno Vincenzo Monti.
– Alto là! – riprese scettico lo studente, udendo quest’ultimo appellativo.
– È acconcio sappiate che il Monti si voleva far frate e poi prete, ed ebbe il titolo d’abate, pur non vestendo l’abito ecclesiastico, e che in vita sua si tramescolò tra Curie, Sacrestie e Corti; oggi laudava i censiti, domani laudava i censori. Aveva, è vero, il capo pieno d’idee; come una zucca è piena di semi… ma… ma… era così. Un guindolo!

I giovinastri, a queste nuove, cascarono a pezzi; le loro anime parvero ingiuriate dai versi, e rimasero come coloro che sognando vedono.

– Come! il Monti, – i giovanotti cominciarono da quel giorno a sincopare, – il tuo Monti era un miserabile sì fatto?
– Gli uomini si pigliano alle parole e i cervi per le corna.
– Questa non l’avrei sospettata nemmeno nel libro dei sogni.
– Sui poeti, specialmente antichi, – disse lo studente scettico, – c’è da farci poco assegnamento.
– Tanto grasso e poca lana, come disse quello che tosava i porci.
– E un altro! – sospirarono i giovani.

Avvenne che al forno fu assunto un mastrante cognominato come il poeta di Fusignano, il quale, più che appassionarsi alla lettura, smaniava sulla rettitudine civile del poeta omonimo. Perchè, egli asseriva che uno che aveva fatto gli studi lo aveva reso cognito che anche nella vita del Monti c’era un filo di logica… di elogica!

Per queste discussioni molte tavolate di pane stralevarono, e ne fu sfornato di quello duro come mattoni.

– Quello che mi fa invelenire, – urlava infuocato il mastrante, – è il vostro orgoglio.
– Ma tu, di là, che ti riscaldi tanto, – gli urlavano irosi i giovinastri, – sei forse parente di lui?
– Capirete, – ammollava l’altro, – il ceppato è quello.

( Lorenzo Viani, L’amico Vincenzo Monti, racconto tratto da “Il nano e la statua nera” )

Viareggio – Piazza Grande – Foto tratta da “A Viareggio con il treno dei ricordi” Pezzini Editore

Viareggio – Piazza Grande (oggi Nieri e Paolini)


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