Lorenzo Viani, «La Bohème» ritorna al suo paese

Da Paolorossi

Proverbio vecchissimo:
«Dopo tanti anni e tanti mesi, l’acqua passata ritorna ai suoi paesi».

Così La Bohème, dopo aver girato e rigirato il mondo, ritorna al suo luogo di nascita. Sul lago si sta facendo una vasta impalcatura e le sponde friabili le stanno rassodando con piantate di pini. Quando Mimì apparirà al proscenio scruterà verso il luogo del «Cecio» cercando la capanna di «Gamba di merlo» col tetto di falasco e gl’impostomi di legno.

Il Club La Bohème: – Qui – Giacomo Puccini –– con una eletta schiera d’artisti – visse e ideò ––– «La Bohème». – Ma non scorgerà altro che macchinismi rugginosi in sfacelo, capannoni bituminosi e ciminiere altissime come colli di gigantesche giraffe e bianche ville che, una tocca l’altra, vanno dal lago al bosco verde di pini e di tigli. E l’insegna del «Caffè Aspromonte» con la provvida Ermenegilda dove si è occultata?

– Ermenegilda, le carte, e ponci alla svelta – urlava il Maestro tra un atto e l’altro de La Bohème.

La falce fienaia ha fatto taglio raso delle stoppie, delle prunache, dei canneti sonanti, dei palei altissimi. La piantagione è stata scerpata. La palude è, giorno per giorno, ingozzata da mostri dal collo lungo e nero che la rigettano in fossati, i quali s’incanalano verso lo spurgo della Burlamacca. La Torre sdentata, da cui il luogo trasse il nome, ha oggi una dentiera di pietre della Gonfolina. Anche le arzavole volano alte e tendono all’opposta riva.

Torre del Lago Puccini

E La Bohème dov’è?: Cecco Fanelli, Angiolino Tommasi e Lodovico, il Gambogi, Amedeo Lori, Plinio Nomellini, Cappiello, Ferruccio Pagni, la vecchia «Compagnia della leggera» che esultava intorno al Maestro. Quella tal combriccola che aveva per regolamento:

«Uscir da desinare con l’appetito e andare a letto con la fame.
Non servirsi mai dell’ombrello, o paralacqua, o piova o nevichi, per assuefarsi a tutto quello che viene dal cielo.
Stare a letto fin che non piglia fame e uscir di casa quando ne avete bisogno davvero: metodo efficace per scansare i raffreddori e i creditori, è consumare meno i panni e le scarpe.
Tenere negli orecchi dei batuffoli di ovatta perchè non entrino pulci per il capo.
E in ultimo non scordarsi che dopo il cattivo viene il peggio».

Per molti dopo il cattivo è venuto il buono e per altri il peggio. Cecco Fanelli, il Marcello torrelaghese, è spirato; spirata è, con lui, la «Pandora», una certa «Musette» lacustre che Cecco conobbe modella alla «Scuola del nudo» di Firenze. Nè s’odono più i concitati duetti:
– Vipera
– Rospo!
– Calmati, Cecco – esortava il Maestro.
– C’è questa vipera. – Allora la Pandora esplodeva come il vaso omonimo, di tutto, molle, palette, piatti, mestoni, bicchieri. E Cecco trovava ricetto nello studio di Giacomo dove, al sicuro riparo, sceneggiavano l’accaduto:

Atto primo: Vento e grandine.
Atto secondo: Vento, grandine e tuoni.
Atto terzo: Tambureggiamento dal cielo con fulmini e saette.
Tela – che in vernacolo lucchese significa scappar via come il vento.

A proposito di vernacolo lucchese, qualcuno della «Compagnia della leggera», osservava maliziosamente al Maestro che Resti con noi vezzosa damigella era musicata in vernacolo lucchese. Il Maestro acconsentiva soltanto nella strumentazione il carattere locale e, ponendosi al piano, diceva:
– Sentite, questa è un’arzavola, questo è un fischione.

Spirato anche Angiolino Tommasi proprio qui dirimpetto al lago ch’egli aveva dipinto centinaia di volte. Lontani gli altri. È ritornato qui Ferruccio Pagni, dopo quindici anni d’America latina:
«Tu – gli diceva il Maestro sei il sopravvissuto di una razza molto remota che abitava sulle rive del miracoloso Stige, dove tu sicuramente hai tuffato il tallone invulnerabile».

E perchè non anche il capo? Malgrado le ingiurie del tempo i capelli di «Ferro Kina» – come lo chiamava il Maestro – son barbati a fondo e neri: Ferro Kina, disciplinatore dello stomaco e educatore del digiuno.
Un giorno Ferruccio Pagni entrò con alterata melensaggine nella capanna de La Bohème; il Maestro, sorpreso, gli chiese da che cosa fosse egli afflitto:

Le risa vanno a terminare in pianto
gran viaggi a vapore al camposanto.

– Come?
– Il dottore – disse sconsolato «Ferro» – mi ha messo a latte e uova.
– Perdio.

E «Ferro», seduto ad un tavolo, trasse di tasca due aringhe, una uovata e l’altra lattata, e le divorò entrambe con tritumaglia di cipolle e peperoni.
Se fossi una folaga – disse il Maestro – mi tufferei in un tuo lago dipinto,

Il Maestro mentre componeva La Bohème, si divagava da «Ermenegilda» col giuoco delle carte: e così mentre entrava all’«Aspromonte» scorgendo i compagni, diceva :
– Tò ecco «Becconero», Boccia, Broccolo
– Presto, Ermenegilda, le carte e ponci alla svelta.

Dove sono oggi Baccalà, Boccino, Braciola, Broscia, Tiberio, Mulone, Pinanna, il Traglio, la Stemperona, Grinchio, Puntello, Bacchino, Baffi di ferro, tutta la «Ghenga» di «Torre»? Non c’è nemmeno da cercarli nel cimitero, chè queste eran tutte stranomazioni paesane.

Anche la «Banda Comunale» s’è messa sulle sue. Non è più quella masnada dai capelli alla «Gasperona» e la penna del fagiano sulla «scrocca» che una sera suonò La Bohème sulla piazza della Chiesa al cospetto del Maestro.

– Cosa vuole, disse il maestro della banda, al Maestro. – Li ho levati tutti dalla «macchia».

Oggi la «Banda» ha il berretto d’inceratino con su la serpentina d’oro e al bavero della giubba ci sono degli sgargianti alamari e va al tempo.

Torre del Lago Puccini – Il Teatro

Al tempo non andavano, una lontanissima sera, Cecco Fanelli, – chitarra – e Ferruccio Pagni, – mandolino i quali, autorizzati dal Maestro, suonarono, a beneficio, e per la prima volta, alcuni pezzi de La Bohème.
Una Compagnia di guitti era capitata a Torre del Lago per recitare all’«Arena»: Dopo cinque o sei «forni» le ghette degli attori abboccavano le scarpe, e i colletti inamidati pareva volessero inghiottire le loro teste allampanate.
Fu organizzata una serata «a totale beneficio» con intervento del Maestro Giacomo Puccini.

«Un pezzo de La Bohème sarà eseguito dal duetto: Cecco Fanelli – chitarra, – e Ferruccio Pagni – mandolino».

L’incasso superò il preveduto. Il Maestro era seduto in prima fila e sotto il largo cappello teneva nascosto un mazzo di «pungitopi», quei cardi accidentati che fanno lungo le siepi, e quando i due si presentarono alla ribalta per ringraziare il pubblico delirante, il Maestro tirò loro il mazzo, che rimase, come un gatto arrabbiato, aggranfiato alla «coda di rondine» del Pagni.

Al Maestro l’America, le due Americhe facevano l’effetto di belle e grandiose oleografie:
«Non vedo l’ora di salutar le folaghe» scriveva di là; e Milano gli stuzzicava la nostalgia:

Il pallone, l’aeroplano
qui, e Milano vo’ veder.
Ecco come
il mio ritardo
gatto pardo
capitò.
Ma «domenea»
vengo al Bozzo,
rulla il mozzo
del motor.
Viva il lago
dolce svago.
. . . . . . . . . . . . . . . .

Giacomo scriveva questi versi alla brava il 23 agosto del 1905 al diletto amico Bettolacci. E dall’America scriveva al Pagni: «Caro Ferro Kina, come t’invidio, mi par di vederti alla ripa del lago sdraiato, felice te!».

Nella casa più pericolante del lago, di rimpetto allo studio del Maestro, là verso il 1905, c’era il mio studio. Si accedeva all’ultimo piano per mezzo di una scala a pioli, sulla quale si arrampicava spesso il Maestro canticchiando: «Se pingere mi piace, cielo e terra». Nello studio non v’erano sedie e il Maestro si sedeva sullo strapunto. Nello studio non c’erano cavalletti, e le pareti facevano da tavola di disegno. Non c’erano nè piatti nè scodelle. Una latta da petrolio faceva le veci del fornello; una pentola e un cucchiaio erano in un canto. Sulla sponda del lago mi ero anticipato di due anni Parigi.

Torre del Lago Puccini -

Le vesti non erano ancora marce di pioggia, nè il corpo tremava di freddo, ma le figurazioni sulle pareti avevano già tutti i gesti muti e orribili della rassegnazione: spettri umani: ferite indimenticabili.

Anche il Maestro mi chiedeva incuriosito dove scovavo quelle figure.
– Son qui sul lago: questo è «Mundo», questo è «Bellantino»….
– Ma perchè? Guardi là! – Dalla finestra si scorgevano l’Apuane: vertebre gigantesche impietrate.
– Guardi là. – Da un’altra finestra si vedevano il pineto, le leccete, l’abbaglio del mare.

Il Maestro faceva a se stesso delle digressioni sul pubblico, sui diritti del pubblico. Ma quel che lo spingeva su per le scale pericolanti era il desiderio di rivivere alcune scene de La Bohème. Fin da quel tempo la capanna di «Gamba di merlo» era stata rasa al suolo e su quel terreno c’incassavano l’anguille pescate nel lago per spedirle fuori.

Dalle fronde dei gelsi, là nel fondo, facevano già civetta delle casette bianche, e il campanile cresceva a vista d’occhio. Il paese, interdetto dai tiri del Balipedio dalla parte del mare, avanzava verso il lago, accerchiava la casa del Maestro, ed egli saliva, a cercare un ricordo di «bohème», le scale a pioli.

Una sera a Parigi, davano, chi sa, forse per la millesima volta, La Bohème.
– Ci sarà il Maestro – pensai, e mi avviai a piedi verso il teatro. Ecco da un’auto scender lui distratto; certo pensava a Torre del Lago e alla felicità della caccia: ma io non ebbi lo spirito di dire «Buona sera, Maestro».
– Poteva essere la sua salvazione, – mi disse Egli, dopo degli anni quando a Viareggio gli narrai l’accaduto.

( Lorenzo Viani, «La Bohème» ritorna al suo paese, racconto tratto da “Il cipresso e la vite” )

Torre del Lago Puccini – La casa di Puccini


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