Io andavo alle Bell’Arti dove un custode alto e nocchiuto sbadigliava a giornate sane. Ricordo un cappotto tirato sopra uno scheletro e un berretto messo di traverso su di un teschio, e le conche della mota fuori alla sala di plastica. Uno scaffale di statue, un asciuttamano cifrato di rosso, e dei cavalletti neri su cui erano spiaccicate delle studentesse miopi, la tomba in gesso di Ilaria, l’orologio, la campana, le rezzole della Biblioteca, una lapide, i saggi degli studenti, l’edera del cortile, il lagno della vasca e un pesce rosso sotto la spera dell’acqua che stava incantato a ore.
Lorenzo Viani – Strada viareggina – 1905 – dalla mostra “Lorenzo Viani – Un maestro del novecento europeo” – Seravezza-Palazzo Mediceo – luglio/settembre 2000
Lì imparai la Storia, l’Anatomia, l’Architettura, la Teoria dell’ombre, la Prospettiva, l’Ornato, la Figura e il Calcolo. La Poesia che lì non s’insegnava, l’andavo a studiare per i campi.
Il mio compagno più affezionato era un bastardo. Quando sua madre ignota lo mise nella “Ruota”, così tenero com’era, gli suppliziò una gamba e un braccio: quello ciondolava come un pendolo, e quella pareva che attruciolasse la lordura della terra.
Nel “Bastardo”, sulla finestra che dette ricetto alla Ruota, c’era stata messa una croce di ferro tinta di nero. La “Ruota”, macchina passiva nei suoi movimenti, tosto che v’era deposto l’innocente, con un colpo di mano la si faceva girare sul pernio; un campanello suonava in corte, e la conversa di servizio raccoglieva un figlio della vergogna o del peccato. E vi fu chi paragonò il mostro, dal capo rotondo e dalle mandibole di legno, alla lupa dantesca.
( Lorenzo Viani, tratto da “Il figlio del pastore”, 1929 )