Il «Francobarbone» era un signore inglese glabro come il celebre ritratto di Dorian Gray, il quale tanti tanti anni fa, sempre in compagnia di un cane barbone che saltellava sul pietrato del molo, come fosse stato di gomma, si recava tutte le sere sotto il telaio del faro a salutare il sole morente.
Il signore inglese, glabro come Dorian, lo chiamavano il «Francobarbone» perchè suo padre, che rese l’anima a Dio in questo paese marittimo, aveva una franca barba partita in piccoli ondeggiamenti di grande dignità, come quelli delle statue assire. Col vistoso patrimonio il figlio ereditò il soprannome del padre suo e il cane barbone che era amato dal padre con la tenerezza con cui gl’Inglesi amano le bestie.
Una sera d’autunno, che ardeva di rossi incanti sulle pinete e sui monti selvosi, il mare pareva un deserto infuocato, su cui i fili di corrente in tono argento fuso, sbisciavano come carovaniere. Il sole morente, quella sera, sembrava una immensa moneta d’oro che stesse per calare in quella incandescente caldaia d’oro in fusione. Il «Francobarbone» s’era affissato laggiù lontano lontano, immobile come una statua.
Poco dopo dal «Francobarbone» c’era un vecchio navigatore dell’Oceano detto «Il Prete di Sinistro», che, quasi leggendo nel volto impassibile del signore inglese l’ardente desiderio di ridursi, traverso quel mare infuocato, ai suoi paesi proruppe nella declamazione di questi versi:
Pria vedi il Portogallo, indi la Spagna
segue la Francia con la sua frontiera
quindi l’Italia incontri, e poi Lamagna
Danimarca, la Svezia e la guerriera
Polonia, la Moscovia, il Turco fiero
che di Bisanzio regge il vasto impero
lunge da noi divisa, e fuor di mano
giace Inghilterra in sen dell’Oceano.
Il «Francobarbone», che aveva ascoltato apparentemente impassibile la declamazione del «Prete di Sinistro» sorridendo soltanto lievemente con l’impalcatura dei denti articolati con filamenti d’oro, lucente come il sole calante, disse con una voce affilata sul telaio dei denti:
– Yesse.
«Giando il mastino», un vecchio lupo di mare che lì presso stava in orecchi per trapelare di qual paese fosse il foresto prossimo al «Prete di Sinistro», mormorò:
– Ho capito, sei uno di quelli che dicono di sì, con l’i avanti dell’esse. Per voialtri Dante non ha cantato.
Il «Francobarbone» aveva un vestito di lana calbigia, una camicia color terra verde con una cravatta di sopracolore su cui era una perla che, fiammata dal sole morente, metteva toni di stanco autunno su quell’uomo impassibile.
Il carattere del «Francobarbone» era uno di quelli che sono assai comuni nel suo paese: freddo,melanconico, penetrante, meditativo, pensoso all’estremo; ma, siccome il troppo pensare fa sognare, il «Francobarbone», quando andava solo sulla cima del molo, pareva sognare sempre il ritorno al proprio paese. Sovente il «Francobarbone» lo si vedeva assorto nella profondità del cielo, massimamente quando greggi di randagie nuvolette pareva andassero ad addossarsi ai paretai di pietra delle alpi Apuane. Quelle pecorelle, al passo perenne dei venti, che di giorno e di notte, transitavano sull’antichissimo piano pascolando, fiori di bambagia il giorno e fioretti gialli come le stelle la notte, mai insidiate dai lupi famelici, dovevano ricordargli tanto i suoi paesi (le pianure dei suoi paesi), dove la lana delle pecore è eccellente perchè, non essendovi lupi, le pecore possono pascolare di giorno e di notte sotto l’occhio letargico dei pastori.
Sovente il «Francobarbone» lo si poteva scorgere, così lungo com’era, sulla via bianca di polvere lineata di biancospini che, dalla pineta, porta al Cimitero degli Inglesi, dove le tombe sono così rade e inverdite che si adeguano alle erbe non mietute. Il «Francobarbone» si metteva sotto le rame di un grande salice piangente su cui grumaie di chiocciolini madreperlati parevano glicini cangianti e si affissava estatico sulla pietra di una tomba distinta: quella del padre suo.
Ai tempi del «Francobarbone» il luogo, in cui fu straccato dal mare il corpo efebico di Shelley, era deserto: uno squallido ondeggiare di pagliole marine, seccate dal vento salmastro, musicava di striduli suoni quel luogo. I pescatori avevano un senso di paura perchè se di nottetempo aravano col rastrello dai nicchi del mare, dirimpetto a quel luogo, attribuivano il suono delle pagliole ai lamenti delle anime degli annegati forestieri straccati dal mare, ai quali non si dava sepoltura nei Camposanti.
Dopo la visita al Cimitero degli Inglesi il «Francobarbone» indugiava fino a notte sul luogo in cui fu arso il grande poeta fuggitivo dal suo paese; qualche pescatore nottambulo asseriva di aver veduto il «Francobarbone» far segni di minaccia, col suo pesante bastone, dalla parte in cui il sole si tuffa nel mare.
Il «Francobarbone» abitava una casa gialla, scialba, con le persiane verde pisello e una porta color ombra, ai cui lati c’erano due conchini di terracotta in cui vegetavano delle cannedindia; a un metro dalla porta c’era una vetriata istoriata come quella di una chiesa, ma nessuno l’aveva mai oltrepassata, e la casa dell’«Inglese» era per tutti un mistero. La casa del «Francobarbone» rimaneva proprio dirimpetto al monumentino che i paesani avevano innalzato alla memoria di Shelley, e il «Francobarbone», uscendo o entrando, salutava, togliendosi il cappello, lo spettro del poeta. Il «Francobarbone» non si era mai visto scappellare a nessun vivente.
Alto, scarnato, diritto, combusto nel viso, di pel sagginato, spolverato di cruschello sui polsi rugginosi, dalle vestimenta strinate come fieno disseccato, il «Francobarbone» rendeva un profumo snervante di fieno, tantochè la gente annusando diceva con sicurezza:
– Di qui c’è passato il «Francobarbone».
Il «Francobarbone» pareva non dovesse avere le congiunture: uno di quegli uomini che son tutti di un pezzo, arcigni, scontrosi, disdicenti ogni amicizia, schivi da ogni contatto con l’uman genere.
L’unica parola che, a memoria d’uomo, s’era intesa dalla bocca del «Francobarbone» era stato quello «yesse» che, in un momento di distrazione forse, egli proferì al «Prete di Sinistro», presente il lupo di mare «Giando il mastino». Anche gli altolocati del paese, di fronte al «Francobarbone», dovevano baciar basso e tacere come taceva lui.
Ma, ci fu un ma: coll’andar del tempo fu notato, dai naviganti dell’Oceano ridotti dalla invalidità a stazionare di continuo sul pietrato del molo, che il «Francobarbone» da tempo non rinnovava più le sue vestimenta e queste gli invecchiavano addosso e parevano risentire della decadenza fisica del padrone che le indossava con tanto garbo; anche la famosa perla s’era velata come un occhio che è prossimo a spengersi:
– L’avrà barattata con una falsa? – insinuò sospettoso un vecchio marinaio. – Vedremo, speculeremo!
E i vecchi lupi di mare videro e specularono. A quei tempi, essi, riscuotevano gli «Invalidi» (la loro sudata pensione) presso una banca marittima e stazionavano nell’antisala impancati su di un sedile di rustico castagno stagionato succhiando i cannucci di ciliegio delle lor pipe di terra, vuote di trinciato; stazionavano lì per delle ore con la pazienza e la rassegnazione apprese sui bordi velici.
Quando, eccoti che non eccoti, ti veggono entrare il «Francobarbone», ma come trasfigurato sempre diritto sì, ma tenebrato negli occhi ceruli da una nube di tedio, e con una carnagione che, per lo squallore, si adeguava alle vestimenta sfibrate. Istintivamente, per quel ferrato senso di disciplina e di rispetto che i marinari apprendono sui bordi, alla vista del «Francobarbone» così malandato si alzarono in piedi dicendo in loro metro:
– E buon giorno…
Il «Francobarbone» non li degnò nemmeno di uno sguardo e passò nell’ufficio del direttore. I vecchi naviganti dell’Oceano rimasero lì come tanti poveri all’uscio.
– Ha levato il turno a tutti.
– La tacca somiglia il legno: anche suo padre era così.
– Approvo.
Repentinamente il «Francobarbone» uscì dall’ufficio del direttore sbatacchiandolo come suol fare uno spettatore che lasci un teatro in cui si recita una commedia che non gli riquadri. I vecchi navarchi trasalirono. Tutti fissarono incantati il «Francobarbone» nel bianco degli occhi, ma uno più navigato lo fissò sulle ginocchia e vedendole marchiate di rosso mattone disse sotto alla ciurma:
– Avete visto nulla?
– No.
– Il «Francobarbone» s’è inginocchiato.
Tutta la ciurma fissò le ginocchia del «Francobarbone» come quelle di un vecchio cavallo caduto sul pietrato.
– Poveraccio: eppure mi dispiace, – disse il più esperto dei marinari.
– A tutti dispiace. – rispose il coro.
(Lorenzo Viani, Il nano e la statua nera – Solitario con cane barbone – Vallecchi, 1943)