La parola «Coloniali» era dipinta, tanti tanti anni fa, sopra una insegna di lamiera color pancia di topo. Le lettere vi spiccavano sopra in celeste prussiano. I rivenditori dei «coloniali», liquirizia ed altri generi, erano svizzeri; quelli del paese, dicendo «gli Svizzeri», incorporavano nome, cognome e i generi diversi che costoro smerciavano all’ingrosso e al minuto.
I marinari anche quando si trovavano con il bastimento all’ancoraggio nei porti di Barcellona o di Marsiglia, dicevano al ragazzo di bordo:
– Vai dagli Svizzeri, e prendi una libbra d’acquavite e una di rumme.
Il ragazzo entrava nella prima rivendita di liquori che incontrava: sicuro sicurissimo di essere capitato dagli Svizzeri.
«Gli Svizzeri» di Viareggio avevano la loro rivendita sull’angolo di Via di mezzo, quasi dirimpetto ad una taverna denominata «Il Prometèo», sul cui nome strambo un poeta aveva rilevato la seguente quartina:
Se ti dà l’animo d’andar per vezzo,
vicino all’angolo di Via di mezzo
vedrai l’insegna, con la lanterna
del Prometèo fatto taverna.
Gli Svizzeri erano due fratelli e una sorella. I tre esalavano un profumino anaciato che incantava. I fratelli, uno alto e giallo quasi come un Cinese aveva i baffi e i capelli del colore del rumme, gli occhi lucidi come quelli di maiolica infissi su certe statue di legno di Barberia. Quando questo Svizzero mesceva, da un bottiglione verde ramarro, un certo liquore anaciato, si avvincava indietro, guardando, con una discesa a quarantacinque gradi, il bicchierino, sigillo di vetro sul banco d’argentone.
Il fratello, più basso, lardato, gelatinoso, pareva fosse stato sbollentato e scodellato al di là del banco delle spezie e delle caramelle; lentissimo nel servire, contava e ricontava sul banco anche i grani della regolizia, di cui andavano matti i ragazzi. La «Svizzera», loro sorella, stava in un canto, seduta su di una poltrona imbottita di capecchio che, sbuzzata qua e là, scapecchiava dei ciuffi lanuginosi, ch’essa prendeva e scardassava con le manine bianche come le candele di una cassetta che era prossima a lei e che lei smerciava alle donnette della Pinciana. La «Svizzera» era piccola piccola, con degli occhiettini neri su di un visino di bimba rinvecchignita, su cui spiccava un parrucchino nero come la pece.
Quando gli Svizzeri rimanevano soli con la «Svizzera», loro sorella, quasi simultaneamente si voltavano verso la complicata tastiera delle bottiglie; e così, di schiena, bevevano come se avessero consumato un misterioso rito; la «Svizzera», senza scomodarsi dalla poltrona, si abbeverava ad una bottiglina, che pareva tenesse in caldo sulla pancia.
Come si può agevolmente immaginare, gli Svizzeri erano la calamita di tutta la mitraglia della strada, accattarotti, saltimbanchi, arrotini, indovini del pensiero, zingari. In diagonale agli Svizzeri, ci alzavano anche i baracconi nei giorni delle fiere: i baracconi d’allora, assiti di legname coperti con un incerato, che avevano per ammattonato il suolo della piazza, qua e là erboso.
Una trista invernata (le barche eran tutte ormeggiate nelle darsene a cagione di temporali) capitò al paese una compagnia zingaresca, che aveva un orso e una tigre ridotti come due vecchi tappeti spelacchiati, un nano e un affricano gigantesco, al quale, di dentro al baraccone, – che avevano, come di solito, alzato in diagonale agli «Svizzeri», – facevano suonare uno strumento, il talabalasco, il quale metteva ribrezzo per la voce disumanata che emetteva (molti credevano che fosse l’affricano sottoposto alla tortura). Il nano lo occultavano molto facilmente dentro una fiasca di vimini e lo esponevano per eccitare la curiosità, sopra il banco, facendogli mettere fuori soltanto una manina.
– Michelino! mettete fuori il vostro santo manino, – urlava con voce baritonale il padrone del baraccone; e subito una manina di bimbo patito appariva sull’orlo della fiasca alta un metro e dieci. L’affricano bramiva, come se avesse voluto cibarsi, tutto in un boccone, di Michelino.
Quelli che avevano potuto spendere i soldi di ingresso al baraccone, raccontavano cose che non avevano dell’umano: l’affricano freddava con la lingua un lastrone di ferro arroventato, si cibava dei carboni accesi, mangiava i gatti vivi.
I ragazzi della Pinciana non tardarono molto a stranomare l’affricano «Mangiagatti»; quando si davano ritrovo sulla piazza della giostra, dicevano:
– Almeno stasera si potesse vedere «Mangiagatti».
Ma senza lilleri non si lallera, e i ragazzi dovevano morire con la voglia di fissare nel viso l’affricano.
Ma i ragazzi rinvennero che, quando la gente del paese se ne stava tranquillamente a mangiare, l’affricano e il nano andavano dagli Svizzeri per inzavorrarsi, e poi prestamente ritornavano ai loro covili. Una sera, dopo un appostamento cautelato, i ragazzi sorpresero il nano e l’africano proprio quando stavano per entrare dagli Svizzeri. L’affricano gigantesco aveva sul dosso, largo come un pietrone, una livrea da cocchiere con dei bottoni d’oro e sul capo, riccio, lanuginoso, bitorzoluto, un cappello sodo.
Era scalzo, ma sembrava avesse i peduli di cuoio cordovano; le mani, pesanti come il macigno, gli oltrepassavano la rotula delle ginocchia, e parevano inguantate di pelle bazzana elefantina. Quando l’affricano, dopo aver tracannato, tutta d’un fiato, una libbra d’acquavite, si voltò, forbendosi la bocca voraginosa, sostenuta da una impalcatura di denti bianchi e canini, i ragazzi furono colti da ribrezzo ed andarono prestamente ad occultarsi nell’andito della taverna il «Prometèo».
Di lì poterono ascoltare anche il linguaggio moresco, chè in quel diabolico linguaggio l’affricano parlottava col nanerottolo Michelino.
Il nanerottolo aveva un testone tondo come un cocomero, con due occhioni simili a due uova sode e una bocca a spaventapane, larga, floscia, aculeata di dentini acuti, come quelli dei topi granaioli; cosa che meravigliava era la sua voce forte, come quella di un bombardino. Lì per lì, i ragazzi gli appiopparono subito il suo soprannome, chiamandolo «Guastagenerazioni».
«Mangiagatti» e «Guastagenerazioni», appena fatto ritorno al baraccone, si occultarono, come al solito, uno dentro la fiasca, e l’altro dietro un tendone d’aleppo rosso sangue.
Certi vecchi marinari asserivano, con una sicurezza matematica, di aver veduto «Mangiagatti» sui porti affricani mettere in carico i bastimenti con balle di cotone, e di averlo visto, accenciato sul pietrato degli antemurali, a incantare i serpenti col suo sguardo viperino. Quando qualcuno di questi vecchi navigatori dell’Oceano poteva penetrare nel baraccone, diceva quasi iroso all’affricano:
– Ehi! demonio affumicato, ricordati che tu, nei tuoi paesi, mi hai inzavorrato la barca di cotonina.
L’affricano dondolava il testone, come l’avesse avuto cerneriato sull’ultima vertebra cervicale:
– No no no – bramiva.
Anche sul nanerottolo i vecchi marinari avevano rilevato delle cabale, narrando di averlo veduto bere dagli «Svizzeri» sul porto di Marsiglia.
Quando la campana della chiesa vecchia suonava i dodici tocchi della mezzanotte, e i lumi del paese s’erano del tutto spenti, ed anche gli Svizzeri erano chiusi, il padrone del baraccone liberava «Mangiagatti» e «Guastagenerazioni» per mandarli ad isgranchirsi le gambe sulla spiaggia di levante, allora deserta e aspra di salicastri. Grandeggiava «Mangiagatti», statuone nero con gli occhi freddi, bianchi come la impalcatura dei denti. Qualche pescatore di traina, inconsapevole che sulla piazza c’erano i baracconi, era colto dalla paura che gli spiriti maligni fossero stati liberati a condizione.
E si faceva il segno della croce.
( Lorenzo Viani, Il nano e la statua nera, racconto tratto da “Il nano e la statua nera” )