La mia infanzia passò tra due opposte tempeste: nel “Palazzo” si aggiravano l’ombre inquiete di una dinastia bandita dal trono ed i resti di uno stato maggiore disfatto dopo una serie di grandi eroismi. Il re appariva e spariva come un’ombra. La sua presenza al “Palazzo” era palese da un mutismo che colpiva tutti; a noi ragazzi, facevano delle ammonizioni terrificanti.
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La parola: – È arrivato il padrone –, da sola, bastava per incatenare la lingua.
Il re, invece, aveva un aspetto sereno, bonario e cordiale. Se la squilla del credo percuoteva il cielo turchino e, un lamento lene di spinetta filtrato dal parco arrivava sino a lui, egli a quel richiamo si avvicinava alla chiesa passando umilmente tra tutta la “Canaglia” inginocchiata sul pietrato celeste e non alzava il capo umiliato. Il re entrava nel tempio ed ivi s’alzava un canto solenne.
Anch’io mi umiliavo sulle pietre e quel freddo della sera che dà ai marmi la freddezza della tomba, si diffondeva nella mia anima e la marmava.
Il “Palazzo” mi uggiva. Il terrore della divinità che vi era diffuso stancava la mia povera anima. Dio non vi si poteva nominare invano. Una volta, perchè dissi: – Dio buono – sembrò che avessi detto: – Dio spietato. Tre o quattro “Canaglie” spagnuole mi saltarono addosso per finirmi. I famuli dell’Inquisizione dovevano avere quelle grinte. Quella “Canaglia” famula di Dio, era spietata quando serviva Iddio.
Se qualcuno avesse nominato il padron del mondo invano, quando costoro erano in preda a un delirio alcoolico, lo avrebbero fatto a pezzi. Il loro alito acetato, commisto alla canfora, faceva pensare ai roghi. Il loro sguardo cupo, sordo, malfidato, mi metteva addosso la temenza della tortura truce. In essi io vedevo riflessa l’imagine del boia.
In questo stato d’animo, balenò l’anarchia.
Lo spettro vendicativo saliva dai Pirenei. Di soppiatto portavo nel “Palazzo” certe stampe in cui c’era effigiato Paolino Pallas, l’autore dell’attentato al Generale Martinez Campos, il repressore dell’Andalusia. La scena della sua fucilazione, contornata di ramette d’alloro, l’avevo sempre in tasca.
Se qualcuno della “Canaglia” spagnuola l’avesse vista, mi avrebbe certamente squartato. Una volta preso da questa temenza, essendo la camera di mio padre l’ultima di un interminabile corridoio, e io dovendolo traversare tutto con uno di quei fogli in tasca, fui preso da tal paura che mi chiusi a chiave in camera e mangiai tutto il giornale.
( Lorenzo Viani, tratto da “Il figlio del pastore”, 1929 )
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