Magazine Cinema

Lost in translation: Intervista al regista David Volach, regista del film My father, my Lord.

Creato il 02 dicembre 2010 da Nouvellepunk

Locandina di My father my Lord di David Volach

Locandina di My father my Lord di David Volach

Lei viene da una famiglia religiosa. Che percorso ha intrapreso prima di girare il suo primo film?

La mia vita era marcata dalla e dall’osservazione. Sono cresciuto a Gerusalemme in una famiglia ortodossa, molto rigida ed esigente per ciò che riguarda l’educazione religiosa. Abbandonai il mondo religioso all’età di 22 anni. Fu un processo lungo e doloroso. Fu allora che mi rifugiai nell’arte, che mi servì ad interrogarmi sul mondo che mi circondava e a costruirmi una nuova identità.

Come scoprì il cinema?

Il primo film che vidi sul grande schermo fu Tempi moderni. Pensavo che si trattasse di un film impudico e, quando la vidi, scoprì il grande cinema umanista di Chaplin. Dopo aver abbandonato il mondo religioso, assistetti alle lezioni di cinema alla Open University, andavo assiduamente alla Cinematica e leggevo molti scritti teorici sul cinema. Ero affascinato dalla dimensione realista e concreta del cinema: questa capacità di tradurre un pensiero astratto utilizzando un linguaggio ancorato nel quotidiano, nella descrizione di fatti reali.

 

Il cast del film include attori e, allo stesso tempo, attori non professionisti. Come scelse gli attori? E come ha lavorato con loro?

Assi Dayan, che interpreta il padre nel film, mi disse una volta che recitava bene solo quando non recitava. Questo era il mio modo di lavorare con attori professionisti e non professionisti insieme: semplicemente chiesi loro di esistere davanti alla telecamera. In teatro, un attore costruisce un personaggio in un universo fittizio, metaforico; nel cinema, al contrario, l’attore esiste in una realtà concreta, quotidiana e il suo personaggio deve confrontarsi con questa.

 

È riuscito a mettere in scena il mondo religioso in modo molto sensuale. Per esempio, le scene d’interni (nella casa o nella sinagoga) sono tutte marcate dal movimento della camera o sono dentro un’unica inquadratura. Che cosa ha guidato questa sua scelta estetica?

Il cinema è il linguaggio della materia concreta. Per questo, è molto importante per me filmare i corpi e gli oggetti nella loro materialità, osservarli da vicino, da lontano, perfino accarezzarli. La cinepresa è come un occhio in movimento, come uno sguardo che si avvicina e si allontana in modo permanente dagli oggetti e dai corpi. Da qui, forse, la sensazione di sensualità che si percepisce nel film.

 

Si vede nel suo film una influenza sia formale che tematica del Decalogo di Krysztof Kieslowski, soprattutto nelle prima parte, Amerai Dio sopra ogni cosa. Riconosce questa influenza? Potrebbe menzionare altri registi che la hanno inspirato?

 

Il Decalogo di Kieslowski costituisce realmente una grande fonte di ispirazione per me. Il film può essere visto come un variazione sul primo episodio, ma una variazione in senso inverso. In Kieslowski, c’è un movimento che va dalla fede assoluta nella scienza razionale al riconoscimento di un mistero metafisico, mentre nel mio film partiamo dalla metafisica religiosa per arrivare alla scoperta della realtà nelle sue manifestazioni quotidiane, umane ed economiche. Contro i dogmi religiosi. Ingmar Bergman è un altro regista molto importante per me: i suoi film mi hanno fatto capire che il cinema è un arte con la Amaiuiscola, un mezzo di espressione capace di astrazione che può abbordare a qualunque tema filosofico.

 

La questione morale nel film fa riferimento alla mitzva (un dovere religioso) dell’”espulsione dal nido”. Potrebbe spiegare il senso della mitzva e la sua importanza nella religione? Inoltre gli animali occupano un ruolo importante nel film (uccelli, cani, gatti, pesci), perché?

È un tema molto dibattuto nel ebraismo. In apparenza, possiamo vedere la mitzva dell’espulsione dal nido come una motivazione umana: quando un uomo incontra il suo cammino, se vuole mangiare gli uccelli, deve allontanarsi dalla madre e restare con i piccoli, per preservare una parte della famiglia. Però nel Talmud è proibito parlare di una motivazione umana quando si parla di un dovere divino, perché la sensibilità al rispetto delle sofferenze altrui è inferiore alla legge di Dio. La vita quotidiana di un ebreo religioso è totalmente determinato dagli obblighi da compiere nei confronti della legge di Dio, sopra ad ogni tipo di rispetto umano. Ovvero, è più importante obbedire a Dio che rispettare i sentimenti del prossimo, soprattutto se si tratta di animali, che, secondo la religione, non hanno anima. Mi sembra che il dovere di obbedire alla legge divina come base della morale ebraica sia molto immorale. Nel mio film, il bambino si affeziona agli animali, un tipo di sensibilità che contraddice la legge religiosa che è anche la legge del padre, e la questione morale nasce da questo conflitto.

 

Lei disegna il mondo religioso in maniera molto complessa e ambivalente: da un lato descrive il calore della famiglia e, dall’altro lato, critica chiaramente il suo estremismo, la sua severità, e l’obbedienza cieca ai precetti religiosi.

In generale, la critica contro la religione in Israele è caraterizzada da un disprezzo verso l’uomo religioso e da una forma di prudenza rispetto all’idea religiosa. Per questo motivo, siamo abituati a descrivere il religioso come asessuato, come se fosse in difetto per la sua virilità o per la sua femminilità (un modo di vestire considerato a volte arcaico, l’obbligo per le donne di coprirsi la testa). Io, al contrario, preferisco disegnare l’uomo religioso come un essere umano, con la sua sessualità, riservando la mia critica alla religione propriamente detta. Spesso, si dice che le idee religiose sono sublimi e che sono gli uomini a distruggerle. Io sono più orientato a credere che l’uomo è sublime, mentre le idee lo sono meno.

 

A cosa sta lavorando adesso? Si tratta di un altro film sulla religione?

No, il mio prossimo film non toccherà gli ambienti religiosi. La verità è che mi risulta difficile parlare di progetti futuri. Per il momento mi sento come qualcuno che va ad una festa, si innamora follemente di una ragazza e non si rende conto di ciò che gli sta accadendo. Ancora non penso di aver smaltito questa festa, né il nuovo amore. Ho bisogno di tempo.

 

Lost in translation: Intervista al regista David Volach, regista del film My father, my Lord.

Enhanced by Zemanta

SCHEDA DEL FILM

Regia: David Volach Durata: 73 ‘ Paese: Israele Anno: 2007 Sceneggiatura: David Volach Fotografia: Boaz Yakov Montaggio: Haim Tabeckman Cast: Assi Dayan, Sharon Hacohen Bar, Ilan Grif

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :