Questi i numeri di un’emergenza globale ancora per lo più sommersa, perché molti sono i portatori del virus inconsapevoli.
Ma finalmente la ricerca è vicina all’obiettivo più ambizioso: la possibile eradicazione del virus.
Boceprevir, presto disponibile anche in Italia, è il primo di una nuova classe di farmaci che, in combinazione alla terapia standard, aumenta significativamente il tasso di guarigione nei pazienti con HCV da genotipo 1, la forma più insidiosa e più difficilmente curabile dell’Epatite C.
Roma, 17 aprile 2012 – Siamo ad un punto di svolta nella lotta contro il virus dell’Epatite C, la più insidiosa malattia del fegato, prima causa di decesso per malattie infettive trasmissibili: con l’avvento di boceprevir, capostipite di una nuova classe di farmaci con un meccanismo d’azione rivoluzionario, diventa più vicina la prospettiva di eradicare completamente il virus.
Boceprevir, inibitore della proteasi, agisce direttamente sul virus ed è risultato efficace contro l’HCV di genotipo 1, il più temibile, perché più refrattario ai trattamenti e perché rappresenta il 60% delle infezioni globali. Aggiunto alla terapia standard con interferone pegilato e ribavirina, boceprevir riesce a raddoppiare e addirittura triplicare la percentuale di guarigione dei pazienti.
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Le evidenze arrivano da due trials clinici di Fase III: lo SPRINT-2, cui hanno partecipato pazienti mai trattati precedentemente, e il RESPOND-2, che arruolava pazienti che avevano fallito con la terapia “duplice”. I risultati sono stati entusiasmanti: in entrambe le tipologie di pazienti, l’aggiunta di boceprevir alla terapia standard a base di peginterferone e ribavirina ha migliorato significativamente la risposta virologica sostenuta, producendo rispettivamente un tasso di guarigione rispettivamente del 66% e del 67% nei soggetti che avevano ricevuto il farmaco per 44 settimane.
«Boceprevir agisce direttamente sulla struttura attraverso la quale il virus, una volta pervenuto all’interno dell’organismo, replica se stesso nelle cellule epatiche» – afferma Savino Bruno, Direttore della Struttura Complessa di Medicina Interna a indirizzo Epatologico dell’Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano, e coinvolto nelle prime sperimentazioni del farmaco – «la struttura bersaglio, individuata nel RNA, è denominata regione NS-3: boceprevir inibisce le proteasi, ovvero gli enzimi di questa regione che permettono al virus di replicarsi; impedisce la replicazione del virus sostituendosi alle proteasi e, in tal modo, il virus cessa di replicarsi e quindi non può più sopravvivere».
Sono circa 180 milioni le persone che soffrono di Epatite C cronica nel mondo, più del 3% della popolazione globale. L’Italia è al primo posto in Europa per numero di persone positive al virus, con 1.000 nuovi casi e 20.000 decessi ogni anno, ovvero due persone ogni ora.
Secondo il professor Antonio Gasbarrini, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Interna e Gastroenterologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli a Roma e Presidente della Fondazione Italiana Ricerca in Epatologia (FIRE), «in Italia circa il 3% della popolazione italiana è entrata in contatto con l’HCV, di cui 330.000 hanno sviluppato una cirrosi epatica: ciò vuol dire che nel nostro Paese il numero di soggetti con infezione da virus dell’Epatite C cronicamente viremici supera il milione e mezzo».
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A livello regionale il Sud è il più colpito: in Campania, Puglia e Calabria, per esempio, nella popolazione ultra settantenne la prevalenza dell’HCV supera il 20%.
L’HCV può entrare nel nostro organismo attraverso meccanismi diversissimi, dalle punture con oggetti contaminati da sangue o fluidi corporei infetti, a operazioni sanitarie o estetiche (interventi odontoiatrici, piercing, tatuaggi, etc.) effettuate con materiale contaminato e non adeguatamente sterilizzato, fino ai rapporti sessuali, omo ed eterosessuali; non va inoltre esclusa le possibilità di trasmissione attraverso le mucose. Come la B, anche l’Epatite C può cronicizzare, trasformandosi in una patologia di lunga durata: a seguito del contagio, circa il 60-70% degli individui diventa portatore cronico del virus ed è esposto ai gravi danni epatici della malattia, come cirrosi e tumore al fegato.
Oltre che per la sua trasmissibilità, l’HCV è estremamente insidioso per il silenzio in cui agisce. «Dal momento dell’entrata nell’organismo» – spiega Carlo Federico Perno, Professore ordinario di Virologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Microbiologia e Virologia dell’Università Tor Vergata di Roma – «per un periodo anche molto lungo (20-30 anni), dà pochissimi segni di sè (in medicina si definisce latenza clinica), ma lentamente e inesorabilmente si diffonde nel fegato, replica massicciamente (in una persona infettata sono prodotti fino a mille miliardi di particelle virali al giorno), e causa l’uccisione delle cellule epatiche, ossia lavora, replica e distrugge, pur non facendosi notare. Il più delle volte, la diagnosi d’infezione da HCV viene fatta quando ormai la malattia è in stadio avanzato, cioè quando subentra la cirrosi o addirittura il carcinoma epatico».
A questo quadro preoccupante si aggiunge il peso sociale che la cronicizzazione della malattia porta con sé come illustra Ivan Gardini, Presidente dell’Associazione EpaC. «Quando la malattia si evolve in una fase avanzata, la persona perde progressivamente la sua indipendenza, ha bisogno e deve farsi aiutare da altri, è costretta a comunicare che è ammalata. Tutti noi dunque ci auguriamo che con l’avvento dei nuovi farmaci l’Epatite C possa essere sconfitta definitivamente».
Il Presidente di EpaC si fa portavoce delle istanze di tutti i pazienti che l’Associazione rappresenta: «è necessario che siano stanziati i fondi per garantire le terapie per tutti i pazienti eleggibili alla cura, a prescindere dalla gravità della malattia» – continua Gardini – «in sostanza, che sia con la duplice terapia o con l’aggiunta di nuovi farmaci, il diritto alla guarigione va comunque garantito a tutti i pazienti».
La strategia terapeutica di boceprevir raggiunge un nuovo traguardo anche in termini di modalità e tempi del trattamento, è previsto, infatti, un periodo di lead-in nel quale il paziente è valutato per quattro settimane con la terapia “duplice” a base d’interferone pegilato e ribavirina. Una volta accertato che il paziente risponde al trattamento viene aggiunto boceprevir. In questo modo si raggiunge un duplice obiettivo: da una parte si riduce al massimo la possibilità che il virus si organizzi per resistere alla terapia sviluppando delle mutazioni e dall’altra si riesce a selezionare i pazienti adatti per la terapia “triplice”, con sensibile risparmio in termini di spesa pubblica e di effetti collaterali.
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Boceprevir è il frutto dell’impegno nella ricerca di MSD, l’azienda farmaceutica che da oltre 30 anni è al fianco di medici e pazienti nella lotta contro le infezioni virali. In tutti questi anni MSD ha centrato gli obiettivi più importanti della ricerca nel settore avendo messo a punto tutte le molecole capostipiti del trattamento: dal primo interferone al primo interferone pegilato, dalla prima terapia di combinazione ai vaccini per le Epatiti di tipo A e B fino ad arrivare ai giorni nostri con il primo inibitore della proteasi. Nei prossimi anni MSD sarà l’unica azienda in grado di fornire il portfolio completo dei farmaci per il trattamento del paziente con Epatite C. Nei suoi laboratori, infatti, sono attualmente in fase di sviluppo non solo gli inibitori della proteasi di seconda generazione che consentiranno una terapia interferone-free, ma anche molte altre promettenti molecole (almeno 12) con meccanismi di azione complementari in grado di bloccare la replicazione del virus.
Ufficio Stampa Pro Format Comunicazione
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