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LOUISE NEVELSON, Studio Marconi di Milano, inaugurazione 3 maggio 1973

Creato il 14 ottobre 2011 da Milanoartexpo @MilanoArteExpo
LOUISE NEVELSON, Studio Marconi di Milano, inaugurazione 3 maggio 1973

Louise Nevelson, dettaglio di Homage to the Universe, 1968, Legno dipinto nero, 275 x 900 x 90 cm

Il 3 Maggio 1973 alle ore 19.00 inaugura la mostra LOUISE NEVELSON, allo Studio Marconi di Milano (clicca: MAPPA) … Non è una notizia fuori tempo: Milano Arte Expo da inizio ad un lavoro di documentazione e trasferimento online di una serie di mostre e cataloghi – in accordo con gallerie e / o Fondazioni - che pensiamo importanti per due ragioni: la Memoria e l’Attualità. MAE Milano Arte Expo sta per aprire una nuova “pagina” che si intitolerà STORIE E LUOGHI D’ARTE nella quale confluiranno, oltre a numerose mostre e cataloghi d’epoca – dal dopoguerra in avanti, per cominciare – descrizioni narrate e interviste a protagonisti dell’arte contemporanea che non necessariamente riempiono le pagine odierne di riviste e giornali ma che reputiamo essenziali alla comprensione del presente e del concetto stesso di “contemporaneità” in arte. Come assaggio, segue l’introduzione alla mostra personale di una delle più importanti artiste americane del Novecento (in mostra, peraltro, anche in questi giorni, alla Fondazione Marconi con la collettiva Grandi opere … Grandi, clicca qui per leggere l’articolo). Anno 1973, LOUISE NEVELSON allo Studio Marconi.

LOUISE NEVELSON, Studio Marconi di Milano, inaugurazione 3 maggio 1973

Louise Nevelson, Homage to the Universe, 1968, Legno dipinto nero, 275 x 900 x 90 cm - cortesia Fondazione Marconi, CLIC X INGRANDIRE

Testo di Franco Russoli: 

LOUISE NEVELSON, UNA STORIA AMERICANA
Oggetto e forma, immagine e simbolo plastico, si alternano e si
fondono nelle opere di Louise Nevelson. Compongono insieme le pagine
di un diario, appassionato di drammatiche tensioni e di felici
abbandoni, che testimonia l’inesausta ricerca del momento di accordo
di tre dimensioni temporali: il tempo della propria esperienza
individuale, il tempo della storia delle culture e civiltà, il tempo metafisico
dell’essere. Fondere il relativo con l’assoluto, il caduco con
l’eterno: è una costante della psicologia, dell’ideologia, dell’ansia di
conoscenza di sé in rapporto alla storia e alla natura, che è alla base
dell’indagine filosofica e poetica delle culture orientali e slave. Un
atteggiamento che ha influenzato profondamente gli artisti europei
del nostro secolo, quando han sentito l’esigenza di abbattere le
pareti dell’edificio classico-umanistico per avventurarsi alla scoperta
di altre realtà, integrali, sia nell’empireo della ragion pura o
della rivelazione mistica, sia agli Inferi del subconscio. La biforcazione
del percorso delle « avanguardie storiche », dopo il cubismo
e il futurismo, verso le strade del neo-plasticismo, del suprematismo
e del costruttivismo, oppure verso quelle della metafisica,
del dada e del surrealismo, lo testimonia esaurientemente.
Far rifluire le due correnti in un unico alveo, in un flusso di originaria
vitalità, è stato l’impegno e l’intuizione degli artisti americani,
che nel magma di eredità culturali dell’Antico Mondo, di arcane
presenze di civiltà precolombiane, e di attivismo incondizionato
di una società nuova, han riconosciuto la materia per una partenza
senza handicap. Bisognava livellare allo stesso valore espressivo
ogni strumento e metodo di comunicazione: i dati della cultura
e quelli della diretta esperienza di vita, la struttura storica e quella
esistenziale. Ridurre i vari sistemi formali e linguistici della tradizione,
pariteticamente, a semplici tramiti di rapporto fra l’Io e
l’Universale. Ha scritto Harold Rosenberg che per l’artista americano
« il rapporto tra stile e oggetto è altrettanto fortuito quanto il
rapporto di un trattore col terreno da scavare; qualsiasi stile va
bene purché racconti la storia ». Appunto da questa disponibilità
primaria (che è tutt’altro che eclettismo), da questa forza pionieristica
di prender possesso in egual modo della cultura e della
natura, si afferma la creatività e il linguaggio individuale, personalissimo,
dell’artista americano moderno. Per parafrasare un’affermazione
della Nevelson, la forma e la sostanza in cui lei e i suoi colleghi
conterranei hanno fissato un concetto artistico della realtà,
dipende dalla loro storia personale. Hanno attinto al repertorio
stilistico della storia senza reverenziali timori, senza preclusioni
dogmatiche, per trovare schiettamente quanto rispondesse alle loro
esigenze espressive. Non stupirà quindi riconoscere nell’armamentario
formale della Nevelson le bacheche e scatole metafisiche
di De Chirico accanto alle diverse declinazioni di incastri e strutture
suprematiste e costruttiviste di Malevic, Tatlin, Rodcenko,
oppure l’assemblage poveristico del Merz di Schwitters accanto
ai ritmi e alle proporzioni essenziali del « De Stijl » olandese. Questi
riferimenti perdono ogni valore condizionante in senso dottrinario
o programmatico, perché sono ridotti a elementi di un vocabolario
utilizzato per esprimere un ben diverso e personale mondo
poetico. Credo che, nelle sue linee generali, questo possa essere
identificato nell’evocazione del proprio proustiano « temps perdu »,
come scandaglio e verifica per giungere all’identificazione del più
profondo nucleo di sé. E la memoria personale, che si perde nei
labirinti del subconscio, eccitata dai balenanti richiami di « occasioni
» presenti a situazioni di un passato sepolto sotto la coltre
del tempo, coincide con la memoria « storica » che riesuma e resuscita
gli eventi e le forme della vita collettiva di civiltà altrettanto
sepolte. Le mura e i totem e i monumenti delle culture messicane,
indiane, primitive, si compongono nei giochi e nei puzzle dell’infanzia
passata nelle case di legno del Maine: e le due dimensioni
interiori di questa archeologia della cultura e della psiche si intessono
in una trama, che il tramando ancestrale dell’aspirazione all’assoluto,
ebraica e slava, unifica col manto mitico e mistico dell’infinito
della luce o dell’ombra, coll’oro o con il nero.
Mi pare indubitabile che, nel percorso dell’arte di Louise Nevelson,
si possa notare un progressivo passaggio dall’evocazione (le architetture
messicane che davano spunto ai lunari paesaggi della
fantasia; i frammenti delle modanature e balaustre delle case ottocentesche
americane incasellati negli scaffali del ricordo e dell’emozione),
alla costruzione ritmica e dinamica di strutture astratte,
quasi la inquietante e ingannevole scacchiera su cui si gioca il
confronto fra le apparenze fenomeniche e l’assoluto della realtà.
Il rapporto fra spazio e tempo, fra materia caduca e forma ideale,
fra luce e ombra, fra superficie e profondità, è l’arduo punto di
arrivo di questo diario di vita, l’approdo a una felice geometria
dell’ignoto, dopo un viaggio attraverso quanto poteva conoscere
del proprio mondo un’artista assetata di verità.
Franco Russoli

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LOUISE NEVELSON, Studio Marconi di Milano, inaugurazione 3 maggio 1973

Louise Nevelson, The Golden Pearl, 1962, legno e oro, 24 elementi, 198 x 100 x 45 cm, cortesia Fondazione Marconi

LOUISE NEVELSON

Nata nel 1900 a Kiev, nel 1905 si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti. Trascorre l’infanzia a Rockland nel Maine e manifesta una precoce inclinazione per le arti. Dal 1920 si stabilisce a New York, dove studia musica, recitazione e frequenta le gallerie d’avanguardia. Alla fine degli anni venti segue le lezioni della Art Students League e nel 1931 si reca a Monaco di Baviera per studiare con Hans Hofmann, il quale è però costretto a chiudere la scuola entro pochi mesi. Dopo una serie di viaggi in Italia e a Parigi, Louise Nevelson torna a New York e lavora come assistente di Diego Rivera alla decorazione dell’RCA Building e della New Workers’ School. Nel 1933 apre un proprio studio e inizia a dedicarsi con continuità alla scultura, creando opere di gusto primitivista realizzate con materiali poveri e naturali. Nel 1935 partecipa alla mostra Young Sculptorsallestita al Brooklyn Museum of Art e negli anni seguenti partecipa a diverse collettive. Nel settembre 1941 riesce ad avere una personale alla Nierendorf Gallery, seguita da un’altra a distanza di un anno. In questa fase entra in contatto con molti protagonisti delle avanguardie europee rifugiatisi in America dopo lo scoppio della guerra.

LOUISE NEVELSON, Studio Marconi di Milano, inaugurazione 3 maggio 1973

Louise Nevelson, Dawn's Host, 1959, legno bianco dipinto, ¯ 91,5 cm, cortesia Fondazione Marconi

Nel 1943, su proposta di Duchamp, la galleria di Peggy Guggenheim Art of This Century organizza una collettiva dedicata alle artiste d’avanguardia, dove la Nevelson espone Column, e dalla metà degli anni quaranta le sue opere compaiono alla rassegna annuale del Whitney Museum. La sua produzione si caratterizza per la totale rinuncia al colore e per la scelta di forme astratte dalla geometria severa e essenziale. Realizza sculture e assemblaggi con materiali di recupero, rigorosamente acromatici, spesso intinti in una pittura nera opaca e coprente. Le dimensioni delle sue opere si amplificano negli anni seguenti, con la creazione di grandi contenitori ricolmi di vecchi oggetti e frammenti di legno variamente sagomati e assemblati, ricoperti di pigmento nero, bianco e colorato. Nella seconda metà degli anni cinquanta tiene diverse personali alla Grand Central Modern Gallery e i maggiori musei americani iniziano ad acquistare suoi lavori.

LOUISE NEVELSON, Studio Marconi di Milano, inaugurazione 3 maggio 1973

Royal Winds, 1960, legno e oro, 83 x 34,5 x 29 cm

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Nel 1962 espone alla Biennale di Venezia, nel 1964 partecipa a Documenta di Kassel e nel 1967 il Whitney Museum di New York le dedica una prima vasta retrospettiva. Dalla fine degli anni sessanta ha diverse personali in tutto il mondo e riceve numerosi riconoscimenti. Realizza opere di respiro monumentale, come la cappella del Buon Pastore per la chiesa luterana di St. Peter a New York (1977) e il gruppo scultoreo Sky Gate – New Yorkper il World Trade Center (1978). L’artista muore a New York il 17 aprile 1988.


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