Love story dall’esito incerto – a short story

Creato il 18 ottobre 2011 da Rory

Premessa: non sono, ne sarò mai, una di quelli che hanno ripiegato sul giornalismo perché volevano fare gli scrittori, ve lo giuro. Prometto solennemente che, qualora la Feltrinelli mi proponga un contrattone vantagiosissimo, non vi angoscerò mai con pseudo romanzetti da onesta gallina (leggi: minchiate di serie Z). The point is that: ho sempre scritto qualche storiella per divertirmi un po’. E’ robetta, ovviamente, giusto per farsi quattro risate. Spero che vi piaccia, insomma.

I’ll be waiting for you baby,
‘Cause I’m through.
Sit me down.
Shut me up.
I’ll calm down
and I’ll get along with you.

You only live at once – the Strokes

“I’ll be waiiiiting for youuu babyyyy! ‘Cos I’m through….Sit me doooown!!! Shut me uuuuuppp!” cantava Engi, in un uggioso pomeriggio ottobrino, mentre si soffiava sullo smalto blu scuro (scelto esclusivamente per il nome “Midnight rocker”, che la faceva sentire bella&dannata). In realtà avrebbe dovuto lavorare o studiare o comunque, fare qualcosa. Ma non le riusciva di fare nulla, salvo deprimersi e cantare questo pezzo degli Strokes.

“Che c’è? Il tuo cuoricino di pietra ha preso a battere?” le domandò con un sorriso di scherno Fabrizio, detto il Gatto per un errore commesso da una loro collega qualche anno addietro (non ci è dato sapere di cosa si occupassero Engi e il Gatto. Probabilmente si trattava di un lavoro impiegatizio nella segreteria di redazione di qualche periodico diretto da Alfonso Signorini). Sollevò la mancina e le fece le corna, continuando a ridacchiare.

“Ma no! No, Gatto, cosa dici?” protestò pigramente lei, sollevando gli occhi scuri da dietro gli occhiali dalla montatura finto intellettualoide. Aveva le ciglia folte e lunghissime, sembravano ingessate di mascara, che, unite allo spesso strato di eyeliner, le conferivano un aspetto a metà tra Courtney Love e una disperata… che poi, sono grossomodo la stessa cosa. “Stavo solo… pensando”.

“Perché… tu ora pensi pure?” lo diceva senza cattiveria. Erano abituati a scherzare così tra di loro. Lui spesso diceva che Engi era un trans, prendendo in giro il fisichetto longilineo e quasi sprovvisto di curve, seni e coseni, della sua amica. “Comunque, potremmo anche prenderci una pausa no? E farci un caffè dal Professore…”

“Buon’idea. Ci stiamo ammazzando di lavoro, ci vuole” replicò ironicamente lei. Il Professore era un bar molto a la page, situato nel salotto buono della loro città. Qualche volta, anche loro dismettevano dunque il proprio spirito punkabbestia e post-anarchico (dico post perché la fase anarchica era passata e si crogiolavano nella sola idea dell’anarchia, senza però prendere un’effettiva posizione su di nulla. Molto comodo). “Ho anche bisogno di cento euro. Pensi che mia madre mi girerà ancora qualcosa?”

Il Gatto aveva un’aria paciosa, proprio come un gatto vero. Erano forse quelle guanciotte morbide, o l’espressione sagace del suo sguardo felino “Ma non ti aveva diseredata? Beh, con questi chiari di luna, penso che dovremmo andare a bussare alla porta di Arcore per farci qualcosa di soldi. Sperando che continuino a fare quelle famose feste.”

Dopo l’ennesima scemenza, si infilarono le loro giacchine modaiole e percorsero la via affollata di cafonazzi per raggiungere il Professore. Furono serviti al banco con un caffè Kinder che sprizzava cioccolato e burro di cacao da ogni poro per il Gatto e un caffè alla nocciola altrettanto ipocalorico per Engi.

“Ti conosco, Engi. Dimmi che cosa ti rende così. Nonostante il tuo nuovo ombretto, il tuo sguardo sta perdendo di luminosità… e un uomo certe cose le nota.” Engi sospirò, incassando la testa tra le spalle. E fu una vera e propria impresa, considerando il fatto che il suo collo era di mezzo metro. Prese il cucchiaino e rimestò il caffè alla nocciola, prima di infilarsene una bella cucchiaiata in bocca, come per darsi la carica, tipo pubblicità dell’Orzobimbo (che poi non mi è mai parso che l’orzo dette tutta ‘sta carica).

“Hai presente… quella roba….non amo che le rose che non colsi? Cos’era…mica quel fascio di D’Annunzio?”

“Non bestemmiare. Era Gozzano. E meno male che sei laureata in lettere…” la redarguì il Gatto, che era l’unico laureato veramente colto in Scienze della Scomunicazione.

“Eh! Vabbè. Comunque. Pensi che si possa amare qualcuno pur conoscendolo quasi per nulla? Pensi che ci si possa innamorare d’uno sguardo, d’un taglio d’occhi? Della profondità di un iride? Pensa, Gatto, al timbro della voce di una persona. Quando è caldo, profondo. Riesce come ad avvolgerci…la sentiamo vicina, anche se magari è lontana, un po’ come quando ascoltiamo un cantante particolarmente bravo o la cui voce è particolarmente gradita dalle nostre orecchie…”

“Gradita dalle nostre orecchie? Ma che t’è preso, stai male? Sembri tu Guido Gozzano, ora. Anzi, Capezzone!”

“Gatto non interrompermi! Pensa a questo. Pensa che non ti importa se questa persona è…più grande di te. Diciamo di dieci…vent’anni. Non ti interessa se vive lontano da te, anche parecchio. Neanche t’interessa il fatto che non rispecchi i canoni estetici della bellezza neoclassica, perché per te è l’essere più bello che Dio abbia messo sulla terra. Non sarà perfetto come un David ma la sua sensualità fa perdere punti anche ai muscoli meglio scolpiti nel marmo. Allora tu non riesci a pensare a null’altro, se non a lui. Ti sembra di vederlo per strada, in metro, negli sguardi dei passanti. E allora ti volti, perché speri sia proprio lui. E ti rendi conto di sbagliare. Arrivi addirittura a pensare che sia quell’ombra che intravedi la sera, quando torni a casa da una giornata di lavoro. Ovviamente, ti sbagli anche lì. Ti manca, anche se non sai perché di preciso. Ti senti vuoto, come se ti mancasse qualcosa. Non ha più grande senso lavorare, nè ridere con un amico, nè ti diverte più fare battutacce coi passanti, come facciamo io e te.”
Engi aveva lo sguardo basso e lucido. Sfiorò con una mano quella del Gatto, prima di ricominciare.

“E non c’è niente che tenga. Lo cerchi…o la cerchi. Ma non ti risponde, non c’è. Forse è con qualcun’altro. Forse non era vero che pensa a te, anche se tel’ha detto. Forse non gli piaci abbastanza, come dice il titolo di quel film. E quindi rimani tu solo, col tuo dolore. Non sei nient’altro che un fantoccio, perché il tuo corpo, come tutto quello che c’è attorno a te, fosse inghiottito dai tuoi sentimenti che, troppo forti, sono venuti fuori per devastare tutto. C’è una soluzione a tutto questo, mi chiedo? C’è, soprattutto, un senso?”

Engi e il Gatto si guardarono senza dire nulla. Parlavano con lo sguardo a volte. Lui l’aveva capita benissimo.

“E’ questa quella cosa che definiscono amore? Esiste davvero? Non ci ho mai creduto. Penso sia una pulsione, più che altro. Una pulsione, perché l’amore come cel’hanno insegnato, dovrebbe spingermi alla gioia, a sorridere e a comprare qualcosa di rosa. Ma non mi succede niente di tutto questo e anzi, sento solo che mi tormenta.”



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