Luca Lanfredi, Il tempo che si forma, L’arcolaio 2015
C’è una specie di sguardo distonico in questa raccolta poetica di Luca Lanfredi, qualcosa che sembra sottrarsi ad una percezione netta del mondo, di uno spazio delimitato e certo. “Lo slabbrato sentimento dell’istante” è qui assediato dal nulla che rende instabile o addirittura cancella di senso ciò che accade, come le frasi a metà che si possono cogliere tra i passanti. E l’andamento dei versi pare proprio disegnare una linea che continuamente si spezza, seguire una voce che s’interrompe e poi riprende “il poco del discorso”, senza artifici, ma in una nudità disarmata. Perché ciò che sta al centro di questa silloge è il rapporto tra il tempo della realtà ed il tempo della parola, che è tensione imprescindibile per ogni scrittura autentica, per un dire che non voglia compiacersi, ma incarnare per quanto possibile il suo sforzo estremo. Lanfredi è cosciente che davvero “troppe sono le ossa” e ciò che resta “è tutto qui”, in una stanza che “non si può dire vuota, ma piena / di niente”. C’è dunque una totalità indicibile che in qualche modo arresta la nostra pronuncia: “La mia lingua non è più / la tua; non è il mio / muscolo, non è il tuo / discorso. Qui, sono / i platani dei viali e non / il tutto al quale si appartiene / a pronunciare i nomi che / si attendono alla porta.”Il tempo si forma con gli istanti dello sguardo, ma questi sono destinati a diventare altro nella parola, a restare in una pronuncia ferita e frammentata, dove il niente risuona (“Guardare è avere male alle parole”). Le tracce mnesiche affiorano in una parola che a sua volta è traccia d’altro, vita latente e precaria, fino a divenire talvolta gesto che stupisce tra luce ed ombra. Ci sono in molte poesie istanti che tornano, come momenti avvolti quasi da una meraviglia disincantata o da una perplessità attonita, barlumi d’esistenza che sembrano non appartenere più o fermarsi per poco ad un confine, ad una periferia prossima alla dissoluzione. La parola cerca il gesto del tempo come un destino a cui è chiamata, ma essa è nello scarto, forma il suo tempo, edifica la sua voce solitaria, come un “anagramma” che è arduo ricomporre. Ecco allora quella distanza che il poeta sa, quella frattura abitata dalla pagina, quel respiro straniero che pure è nostro, dove – come afferma Lanfredi - le parole sono “distanti un’autobiografia”.Il rapporto tra il tempo della realtà e quello della parola si configura allora come segnato da un’inquietudine, che è insieme tensione esistenziale e poetica, nella consapevolezza che “ci si perde poi /dentro la storia, in ogni inizio, nella camera / murata dove si cerca il nord come / nell’improvviso d’una città straniera”.Mauro Germani