“In Italia non si fanno scelte di sistema”. E questo, nell’analisi di Luca Ponzi, vale anche di più dei poderosi numeri prodotti dal sistema agromafia e dalla persistenza del fenomenoItalian sounding. Il giornalista Rai, autore insieme alla collega del Sole 24 ore Mara Monti di “Cibo criminale”, una rassegna di casi giudiziari nel settore truffe alimentari, a due anni dall’uscita del fortunato volume ha allentato i cordoni della ricerca nel settore, ma mantiene le convinzioni allora maturate: “Come dico a chi mi chiede soluzioni, soprattutto giovani: ragazzi, la lotta non la devo fare io. Io posso dire qualcosa, il mio compito è fare in modo che si sappia. Ma bisogna costruire insieme”. E oggi, aggiungerebbe volentieri, in Italia è difficile. Oggi la cronaca racconta dello smantellamento di un’organizzazione camorristica che spadroneggiava nell’agroalimentare romano
, mentre l’Italian sounding (l’ultimo è un sequestro di falso vino italiano nel nord Europa) continua a regalare casi e nuove tipologie di truffa.
Coldiretti, commentando proprio questa recente notizia, sostiene che in Italia ci sia “mancanza di trasparenza nel commercio dei prodotti agroalimentari per i quali non è ancora prevista una capillare tracciabilità con la presenza dell’indicazione di provenienza sulle etichette”. È d’accordo?
Luca Ponzi: Non è certo la prima operazione del genere, e la richiesta di Coldiretti non è nuova. Quando ho scritto cibo criminale con Mara Monti il dubbio era “perché lo facciamo? Stiamo sputtanando il Paese. L’abbiamo detto sin dalla prima presentazione, in tutte le sedi e anche all’Expo: è un’operazione fatta per portare attenzione su un tema importante, tenendo presente che il cibo italiano, oltre che il più buono, è il più controllato al mondo. Ma questo non basta, ci sono due problemi.
Il primo: come tutte le realtà economiche in cui si muovono grandi quantità di denaro c’è il rischio dell’infiltrazione della malavita, perché dove si muove denaro chiaramente, chi vuole arricchirsi aggirando le regole trova i soldi, la materia prima. Il secondo è il nostro limitato peso politico in Europa, per cui il cibo italiano è controllato, ma tutto sommato non punta sulla quantità. Le nostre eccellenze e industrie alimentari sono piccole: la Barilla, la più grande, è piccola rispetto per esempio a Nestlè e Unilever, la nostra attività di lobbying è limitata: cosa può fare il Consorzio del pecorino rispetto a multinazionali con un giro di miliardi di euro? C’è il rischio che le politiche europee siano più orientate all’attività di lobbying verso multinazionali.
Paghiamo lo scotto di debolezza politica che non è imputabile a un singolo partito ma al sistema Paese e al fatto che spesso la politica europea sia fatta guardando a diatribe interne riportando la contrapposizione destra-sinistra che c’è in Italia e perdendo di vista l’interesse del paese come entità unica. Altri paesi sono più autorevoli perché più uniti.
Qualche intervento a contrasto del fenomeno Italian sounding, però, c’è stato.
L.P.: È stato fatto qualcosa, per esempio la legge sull’olio, e il ministro Martina ha promesso di impegnarsi, ma è un problema ampio, che spesso gli imprenditori italiani sottovalutano. Ci sono casi di imprese che in Italia sfornano prodotti di eccellenza ma per aggredire l’estero fanno prodotti in loco per aggirare le norme sull’esportazione: aziende della provincia di Parma fanno prodotti simili a culatello e prosciutto negli Stati Uniti per evitare le norme sull’importazione di carni fresche. Da un lato ci sono strategie commerciali anche condivisibili, ma dall’altro questo crea nocumento all’Italia, perché il consumatore viene in qualche modo ingannato.
E poi ci sono quei prodotti che di italiano non hanno nulla, che sono la maggior parte e che ci costano 160 milioni di euro al giorno secondo Coldiretti, cifra enorme che va aggredita; è di questi giorni la proposta di chiamare San Marzano un prodotto fatto altrove. A monte di tutto, ancora, va la sostanziale debolezza politica. La tracciabilità è sacrosanta, ma teniamo conto che su certe materie prime noi non siamo autosufficienti, bisogna rivedere i processi produttivi.
Intanto il volume d’affari dell’agromafia lievita: oggi 15,4 miliardi di euro, due in più rispetto all’anno di uscita di “Cibo criminale”.
L.P.: Dal primo rapporto di Coldiretti l’agromafia ha fatto performance di 5 miliardi di euro in sei anni. Nemmeno Apple cresce così. Nel mondo il cibo è italiano, hai un marchio meraviglioso. Però l’Italia non fa sistema. Guardiamo i francesi, con dei vini quantomeno allo stesso livello se non peggio ma che vengono venduti a prezzi incredibili, ma noi abbiamo spumanti trentini e vini rossi che nulla hanno da invidiare a transalpini. Noi non sappiamo fare sistema.
Cosa pensa degli scandali relativi all’olio extravergine d’oliva?
L.P.: Ci sono sempre stati: l’olio italiano è pochissimo, le ultime annate per via di clima eXylella sono state disastrose quindi è chiaro che arriverà dall’estero, l’importante è che come tale venga venduto e identificato. Ci sono strumenti per analizzare la composizione chimica che ricostruiscono il terreno in cui il prodotto è stato coltivato. Gli strumenti pratici per combattere l’italian sounding ci sono, bisogna vedere se c’è la volontà non soltanto da parte del governo ma anche della filiera dell’olio. Altro problema: le aziende sono molto piccole quindi aggredibili, alcune comprate dagli spagnoli, è chiaro che chi è grosso controlla le organizzazioni di categoria, fa lobbying sul ministero e tira acqua al suo mulino.
Che ruolo ha l’informazione nel contrasto a questi fenomeni?
L.P.: Un ruolo estremamente attivo, in particolare oggi le testate online, il cui lavoro è meritorio. Il consumatore è attento, ma bisogna stare in guardia perché online c’è una sperequazione di giudizi, una grande differenza tra chi è professionista e chi si improvvisa. Ci vuole un attimo ad affossare azienda mettendo in rete notizia non verificata. Il nostro ruolo è fondamentale. Sa qual è l’unico reale guadagno che mi ha dato il libro (oltre le diatribe giudiziarie, naturalmente)? Aver contribuito a riportare all’attenzione una cosa di cui si era già parlato ma era un discorso frammentario. Non abbiamo scoperto nulla, ma dato ordine a una serie di informazioni. Dovremmo riappropriarci del nostro mandato: raccontare le cose ma dopo averle studiate e capite, non per averle semplicemente sentite.
Ha aperto uno squarcio sui
rischi che il made in Italy da anni corre, “Cibo criminale”: formaggio, mozzarella, prosciutto, olio e pomodoro, tutte eccellenze invidiate nel mondo e oggi copiate un po’ ovunque spacciandole per genuinamente tricolori. Un filo neanche tanto sottile lega questa tipologia di truffa e la grande, frastagliata organizzazione criminale che va sotto il nome di Agromafia. Ponzi, che attualmente si sta occupando di altre infiltrazioni mafiose, quelle nel tessuto sociale emiliano-romagnolo, potrebbe in futuro rioccuparsi di cibo: “Non per il successo che ha avuto il libro, ma perché
c’è fame di queste tematiche”. Le undici querele ricevute, evidentemente, non lo fermeranno: “In Italia c’è poca protezione per chi scrive senza le spalle coperte, perché non esiste l’incauta querela”. Ne uscirà, si augura, ma questo problema è un ostacolo per chi vuole fare questo tipo di informazione.