Luca, un “Nostro” connazionale a New York

Creato il 17 dicembre 2014 da Ilnazionale @ilNazionale

Luca Nostro
foto dal profilo Facebook dell’artista

18 DICEMBRE – New York, si sa, è definita la città che non dorme mai. Di sicuro è la città che permette di fare tutto ciò che si vuole. La città dei balocchi, in una parola, soprattutto per chi vive di e per l’Arte, quella con la A maiuscola. La metropoli statunitense è sicuramente un amplificatore culturale dove è possibile apprendere, da una parte, e realizzare i propri sogni, dall’altra. Proprio come è successo, in maniera molto naturale, al jazzista Luca Nostro. Chitarrista e compositore, il quarantenne romano ha registrato addirittura quattro dischi nella Grande Mela, diventata ormai la sua seconda patria.

Luca, raccontaci com’è iniziata questa “spola” fra New York e l’Italia?

“Io suono jazz e musica contemporanea e all’epoca stavo cercando di portare avanti i miei progetti musicali. A me piace molto il jazz contemporaneo e in Italia non riuscivo a trovare musicisti che riuscissero a fare la mia musica con naturalezza. Così nel 2005 ho deciso di andare a New York per vedere se fosse possibile allargare i miei orizzonti culturali. Ovviamente ne sono rimasto folgorato, perché quella è la vera patria del jazz e li non ci sono barriere fra stili musicali diversi: lì nel jazz si possono sentire tracce di rock, punk, heavy metal e viceversa. Quando sono andato lì ho iniziato subito a suonare in lunghe jam session con musicisti curiosi anche di ascoltare i miei pezzi, che ho ovviamente proposto e sono piaciuti. Così ho deciso di registrare il mio primo disco proprio lì, a New York. Così l’anno successivo sono tornato e rimasto per un intero mese e ho realizzato il mio sogno insieme a bravissimi musicisti della scena contemporanea newyorkese. Da allora ci torno ogni anno, anche grazie al Visto da artista che sono riuscito ad ottenere con l’aiuto dei responsabili dello studio di registrazione dove ho realizzato i miei dischi”.

Ti piace vivere nella Grande Mela?

“Al di là dell’essere musicista, e quindi trovare qui l’ambiente ideale per realizzare al meglio la mia professione di jazzista, a me lo stile di vita di New York piace molto. Io sono romano e la mia è una grande città piena di cose da scoprire,ma è musicalmente un po’ addormentata. NewYork è più viva, quasi frenetica, e ti stanca mortalmente, perché quando sei là faresti qualsiasi cosa pur di sfruttare al meglio il tempo che hai a disposizione. L’importante è pian piano trovare un equilibrio e imparare a rinunciare a qualcosa, altrimenti dopo poco saresti letteralmente da buttare. In particolare ho predilezione per il quartiere di Brooklyn, che è una città nella città, con tante realtà diverse rispetto a Manhattan”.

Frequenti gli altri italiani che vivono a New York?

“Ci sono ovviamente tanti altri italiani, alcuni di loro sono amici e ogni tanto viene qualche amico a trovarmi. Tendo più a frequentare gli americani, perché sono interessato a conoscere un’altra cultura. Che poi, nel mio caso, è la cultura afro-americana, da cui proviene la musica che mi piace. Se conosci troppi italiani poi rischi di impigrirti anche nell’apprendimento della lingua”.

Venendo allo “scambio culturale” che il tuo “pendolarismo” inevitabilmente comporta, cos’hai portato tu nel jazz in America e cosa ti sei portato in Italia?

“Più che altro sono sicuro di aver ricevuto io molto da quest’esperienza. Ho avuto l’occasione di sviluppare al meglio la mia musica, confrontandomi, come ho detto, con ottimi musici. Io sono italiano e orgoglioso di esserlo. Più generale, NewYork sta vivendo un periodo che io definisco da tardo impero. Tante delle rivoluzioni culturali portate avanti da questa città negli anni Settanta e Ottanta adesso stanno diventando dei veri e propri Classici. Non c’è più, forse, quell’energia molto esplosiva e creativa che c’era un tempo e che l’ha resa celebre, anche se rimane comunque molto maggiore rispetto a quella che si trova nel resto delle città del mondo. In questo senso gli italiani e gli europei in generale possono dare molto alla cultura americana, perché siamo più abituati a convivere e a fare i conti con le tradizioni del passato. Cosa che ora debbono imparare a fare proprio gli americani per far convivere al meglio passato e presente, tradizione e innovazione”.

Da anni sede del “VeronaJazz Festival”, a gennaio riparte anche il “Winter in Jazz”. La città di Giulietta può rappresentare un punto di riferimento, almeno in Italia, per questo genere musicale?

“A Roma il jazz ha avuto recentemente molti problemi e anche se ora ci sono vari movimenti che cercano di ricostruire le condizioni per riproporlo, c’è ancora molto da lavorare. Verona ha ovviamente meno appuntamenti, essendo una città più piccola, ma quelle poche che vengono proposte sono sempre organizzate benissimo. Inoltre c’è un pubblico molto attento e con l’orecchio educato. Sono stato recentemente in un locale del centro e quella sera suonava un musicista newyorkese fra i più importanti, tanto per dire. In generale la provincia del nord cura il jazz nei minimi dettagli, i locali funzionano, si mangia bene eil pubblico risponde sempre alla grande. Verona, in particolare, è uno dei centri più importanti fra quelli che conosco andando a suonare in giro”.

Quale sarà il prossimo progetto a cui lavorerai?

“In realtà ho da poco terminato una collaborazione interessante: musicare un documentario dedicato alle rotte del narcotraffico – ad opera di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello – che andrà in onda prossimamente su Sky. Un’esperienza per me davvero entusiasmante”.

Ernesto Kieffer

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