di Alessandro Diotallevi
Quis custodiet ipsos custodiet? In prospettiva storica, non si può non essere d’accordo con Lord Blake, eminente storiografo inglese, che ha rilevato come non ci sia mai stata un’età dell’oro nella quale i membri del Parlamento fossero tutti onorati (onorevoli?) gentiluomini. La sua amara constatazione, riferita al Parlamento inglese, può, senza esitazioni, essere considerata valida anche per il Parlamento italiano, libri di storia alla mano.
Ci insegna Amartyia Sen che “ogni buona teoria etico-politica, in particolare ogni teoria della giustizia, deve procurarsi un focus informativo, deve cioè decidere su quali aspetti del mondo dobbiamo concentrarci quando giudichiamo una società e quando valutiamo la giustizia e l’ingiustizia”.
Allora, applicando la regoletta a me stesso, e desideroso di proporla all’esterno, con riguardo alla nostra Italia, Paese sofferente nel quale sbiadiscono i confini tra giustizia ed ingiustizia, cerco di stabilire un focus informativo aperto sulla questione della corruzione. E poiché sono convinto che nella maggioranza delle coscienze non sia poi così chiaro cosa effettivamente essa sia, voglio partire da un fatto concretissimo.
La scorsa settimana, il Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, nel corso di un’audizione delle commissioni riunite Affari costituzionali ed Affari sociali della Camera dei Deputati, ha illustrato la delibera n.8 del 2015. Cerco di semplificare:
1) C’è una legge (il decreto legislativo n.39 del 2013) che all’art.11, comma 1, stabilisce l’incompatibilità degli incarichi di vertice amministrativo nelle amministrazioni pubbliche e negli enti pubblici con le cariche politiche di vertice (per intenderci, quelle governative e parlamentari);
2) L’Autorità nazionale anticorruzione viene investita di un caso concreto, per iniziativa del Presidente dell’Ordine dei farmacisti (lodevole la sua iniziativa), circa la compatibilità tra gli incarichi di vertice negli ordini professionali e il mandato parlamentare;
3) Gli ordini e i collegi professionali hanno natura di ente pubblico non economico e, quindi, per espressa statuizione di legge, gli incarichi di vertice rivestiti dai loro amministratori rientrano tra quelli per i quali è stabilita l’incompatibilità con la posizione di parlamentare, cioè di deputato o senatore della repubblica;
4) L’accertamento e la contestazione delle incompatibilità, rileva sommessamente l’Autorità, può avvenire per due vie, quella dell’amministrazione d’appartenenza, tracciata dall’art.19 del richiamato decreto legislativo, lungo la quale si colloca il presidio di vigilanza dell’Anac, l’altra, a circolazione riservata, della Camera di appartenenza dell’interessato.
A parte, questioni di potenziale conflitto, ove due procedimenti di valutazione di incompatibilità rispettivamente e contemporaneamente avviati dalla pubblica amministrazione o dall’ente e dalla Camera di appartenenza, si concludessero con decisioni opposte o confliggenti, (peraltro, il dott. Cantone con una timidezza forse dovuta al metus sedis s’è premurato, imprudentemente, di affermare il primato della decisione parlamentare in caso di conflitto di “giudicati”) qui la deliberazione dell’Anac costituisce elemento di considerazione “civica”, non legale, sul tema giustizia-ingiustizia, in Italia, oggi.
Partiamo dalla reazione parlamentare. Una questione di stretta natura morale e di rilevanza costituzionale è stata travolta da scomposte reazioni partitico-politiche culminate nell’osservazione del Presidente della Commissione affari costituzionali secondo il quale si stava configurando un processo in contumacia dei singoli detentori del doppio incarico, amministrativo e parlamentare. Niente di più inveritiero. La deliberazione dell’Anac riguardava un fatto specifico, solo occasionato dell’esistenza in capo a parlamentari del doppio ruolo.
Il dibattito avrebbe dovuto aprirsi sui principi della legge e sulla sua corretta applicazione, non sugli interessi di singoli parlamentari. E, meno male che agli atti delle Commissioni riunite resterà il monito di Cantone, conforme all’intento legislativo, secondo cui l’applicazione della legge “serve ad evitare sovrapposizioni di funzioni e conflitti di interesse”.
Ecco che occorre stabilire un focus informativo, perché gli italiani, avvolti e travolti da informazioni vistosamente parziali o faziose, prendano posizione non sul singolo fatto di corruzione ma sull’intero quadro morale delle relazioni politiche, economiche e sociali. Infatti, non si riesce proprio a capire perché il grado di intolleranza civica maturato agli inizi degli anni ’90, che portò ad un’ondata di partecipazione massiccia, referendaria e di territorio, si sia ridotto fino alla giustificazione dei processi degenerativi dei venticinque anni successivi.
Allora, la questione in ballo è quella della sovranità parlamentare con il corredo delle difese della sua autonomia e di quella dei suoi membri, di come viene affermata in concreto e di come è percepita dai cittadini.
Figlia legittima della separazione dei poteri, era già ben configurata nell’ordinamento inglese, nel 1688!, nei seguenti termini (non tradotti per lasciar loro la forza scarna della semplicità): “the freedom of speech, and debates or proceedings in Parliament, ought not to be impeached in any court or place out of parliament”.
Se fosse stata esercitata nelle sedi parlamentari in conformità ai principi di autonomia ed in difesa intransigente dell’interesse generale e del bene comune, quindi in contrasto con gli interessi di parte riferibili alle singole forze politiche, e se non fossero state forzate, con interpretazioni irridenti, le regole formali e quelle sostanziali, a partire dal patto di alleanza delle istituzioni con la comunità nazionale, l’autonomia parlamentare avrebbe potuto rappresentare l’argine invalicabile alla più lancinante delle ferite della democrazia, quella provocata dall’opprimente supremazia dei conflitti d’interesse risolti, sempre, in danno della credibilità delle istituzioni.
Insomma, se i parlamentari esercitassero la funzione loro conferita dall’investitura popolare, se cioè proprio loro fossero i custodes dell’interesse generale, e se, storicamente, non fossero i principali indiziati della crisi della fondamentale funzione del controllo, allora le istituzioni costituirebbero il vero argine alla corruzione. Ma così non è. E, non so se incredibilmente o paradossalmente, le misure legali contro la più disgustosa delle degradazioni umane, la corruttibilità, servono proprio a riparare il paese dai suoi custodes.
C’è un punto sul quale occorre intendersi: il principio della rappresentanza democratica e popolare non include quello della rappresentanza di parte; la nostra maltrattata Costituzione è esemplare nello stabilire che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
In questa luce, come suona sguaiato il gioco degli equivoci tra incompatibilità e competenza messo in atto nelle commissioni parlamentari e tamponato con la forza della verità dal presidente dell’Anac!
Ma, va detto, il precetto costituzionale ha forza precettiva. Le leggi tardive, pigre, che, con ritardo colpevole, si adagiano e prendono posto nella mal condotta lotta alla corruzione, nient’altro sono che esplicazione di un disatteso principio costituzionale, sacrificato per decenni agli interessi di parti(tocrazia). Con il sospetto, in questo caso molto fondato, che i corrotti, entrati per vie ordinarie nelle istituzioni, attraverso le elezioni e con l’acquisizione di responsabilità di governo, vi si siano installati nell’interesse degli interessi anziché delle persone, e quindi siano in permanente ed irriducibile conflitto d’interesse, in barba ai parametri costituzionali mai fatti valere in concreto.
C’è, per questo motivo, molta distanza e circospezione e diffidenza verso l’autonomia parlamentare. Mentre si stenta a configurare un’aggressione nei suoi confronti degli altri poteri, anche per il presidio della Corte costituzionale, se ne coglie l’uso strumentale fattone dai partiti a difesa delle proprie pratiche illegali, sulle quali e nelle quali ha trovato forza e slancio la corruzione a titolo individuale e nel proprio interesse, sia del personale politico che dei privati cittadini. E, a stare bene attenti, se ne coglie l’empito distorsivo del gioco democratico, nel contribuire a tener lontano dal recinto della rappresentanza popolare strumenti aggiuntivi e sussidiari di controllo, direttamente espressi dalla cittadinanza, come, ad esempio, avviene in altri paesi (peraltro, anch’essi afflitti da corruzione, seppur in grado meno severo).
In un rapporto al Parlamento inglese, si legge che da quelle parti, era il 1666, fu approvata una risoluzione che impediva ai parlamentari-avvocati, in evidente stato di conflitto d’interesse, di influenzare l’approvazione di leggi e di procedure parlamentari. Stesso divieto per i public-relations consultants, un paio di secoli più tardi. Non che il Regno Unito sia rimasto immune dalla corruzione, ma la resistenza è stata di livello “accettabile”.
Ciò che l’occupazione partitica dell’istituzione parlamentare impedisce di focalizzare è il fatto che la sacrosanta difesa dell’autonomia costituzionale dei membri delle Camere è indebolita dall’uso indebito che ne è stata fatta sul fronte della loro influenzabilità nelle scelte legislative da parte di corpi esterni, cioè di gruppi di pressione.
Due strade si aprono a difesa della funzione parlamentare: la prima, quella delle incompatibilità, delle restrizioni nell’esercizio delle attività, quella che emerge dal blocco legislativo delle misure contro la corruzione, con tanto di codici etici e di sanzioni. Ma ve ne è una seconda, meno battuta eppure, a ben valutare, più consona al vigente assetto costituzionale, da dotare di regole procedurali nuove. Mi riferisco a quella della riconfigurazione dei processi di decisione e di controllo parlamentare, in modo tale che gli interessi esterni non entrino nelle aule parlamentari camuffati da proposte di legge o da emendamenti, bensì nella veste di attori necessari dei processi di formazione delle decisioni, chiamati ad avere ingresso nelle aule parlamentari sotto il controllo e nelle forme stabilite da una legge e dai regolamenti parlamentari. Con un’aggiunta: che gli interessi e i loro portatori debbano dotarsi di un’organizzazione che li renda trasparenti e misurabili nella loro forza rappresentativa. Immaginate, a quel punto, l’esplosione virtuosa della mediazione parlamentare nelle aule parlamentari! Immaginate la reimportazione delle competenze in Parlamento e, forse, la riconfigurazione verso l’alto degli apparati di partito. Ma, soprattutto, a fronte di questa disclosure, immaginate quale esercizio di controllo potrebbe svolgersi nella comunità nazionale, sciogliendo in parte il faticosissimo problema quis custodiet ipsos custodes. E, si, perché il baluardo dei controlli legali è entrato in crisi appena messo alla prova della verifica dei conflitti d’interesse, come dimostrato dal dibattito apertosi sulle comunicazioni in parlamento. Alla fine, pur nella consapevolezza delle resistenze di sistema, non di rado condite con dotte coperture legali (ironia del destino), la lezione di Sen, di tenere aperta l’informazione, ed io dico di tenere accesa una luce permanente sulle questioni d’interesse pubblico generale, è l’unica via utile, purché riparata dagli eccessi iconoclastici dell’invidia sociale.
Sul punto siamo interpellati, tutti, direttamente, senza esser riparati nell’ombra complice della finzione della legalità!