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Lucetta Frisa: “A Praga si vedono i morti” da “La Torre della Luna nera e altri racconti”

Creato il 27 agosto 2012 da Viadellebelledonne

Lucetta Frisa: “A Praga si vedono i morti” da “La Torre della Luna nera e altri racconti”

Qualche volta uomini e paesi mi sono parsi ritratti e paesaggi di una galleria che debbo aver visitato molto tempo fa, chissà quando. Ho sempre riconosciuto tutti, e più che mai gli uomini, dovunque.

L.Pirandello

Parenti e amici

I morti compongono un alfabeto di nomi che fluttuano nell’aria. Ognuno ci riconosce quello che più gli appartiene e ricompone un altro tempo, un’altra storia, un’altra città. L’effetto Praga è terribile: troppa storia, leggende, magie, alchimie, atmosfere letterarie. I muri ne trasudano. Lei ci va senza sapere molto della sua leggenda. La prima sera a Praga, a teatro, nella sala Smétana, vede il suo primo morto. L’amato nonno.

E’ durante il Requiem di Mozart. Il nonno canta nel coro. Non sa a che punto del Requiem lo riconosce, forse all’inizio di Lacrimosa dies illa, quando Mozart – così si dice – scoppiò a piangere, commosso dalla propria musica. Il nonno è lì, stretto tra altri due anziani – un orribile orco e un vampiro impettito – con la sua zazzera bianca, le lenti rotonde, e si agita più di tutti. Sembra quello che canta di più.

Perché ha visto cantare il nonno? Forse perché lui, da vivo, aveva amato tanto la musica e il canto, e sognato di cantare in un coro? Costrinse suo figlio a imparare il violino, ma fu un disastro; ordinò alla figlia di imparare il piano e lei imparò e suonò, suonò anni e anni per lui, per la famiglia raccolta in salotto, per gli invitati del sabato sera, finché lui non cadde in miseria e dovette svendere il piano e tutto quanto possedeva per poche lire; ed emigrare in Francia.

È a Praga che i sogni…? La parte mancante della vita – quella non vissuta o vissuta male – va a ricongiungersi all’altra, e chi è morto può infine appagarsi, darsi pace?

Salendo per la Nerùdova, quasi si scontra col professor Guido D., direttore del CNR negli anni ’70 e suo vicino di casa. Sempre gravemente depresso, aveva tentato più volte il suicidio. Infine ci era riuscito. Dalla Nerùdova scende quasi di corsa e sembra allegro. Poco ci manca che lei non lo saluti.

Andrea, un suo vecchio amore, defunto da un pezzo. Non sapeva mai cosa fare di sé- calciatore, imprenditore, sommelier o interprete- ma adesso è cameriere al Café Slavia, e le sta chiedendo in un inglese impeccabile e con l’occhio malizioso che cosa desidera. Sembra al centro di sé come un principe rinascimentale, e più giovane dell’ultima volta quando lo incontrò per caso, abbracciato a colei che l’aveva soppiantata nel suo cuore. Fu lui,nella sua vita, il primo ad aprirle le porte del mondo dei disincarnati, quelli costretti a spogliarsi del corpo non per scelta d’ascesi, ma per rifiuto d’amore.

A Praga non incontra solo morti. Livia L. danza in uno spettacolo alla Laterna Magika. Lei che ha dovuto interrompere la carriera di ballerina per motivi di salute (un classico da feuilleton) è lì, col suo naso all’insù, così adatto a chi, per mestiere, deve protendersi verso l’alto – che si esibisce magnificamente nel pas de deux.

Si riscuote dall’ipnosi di quella visione per chiedersi:

- Ma oggi, Livia L. quanti anni ha?

- Settantatre – si risponde.

Il vecchio cane pastore di nome Blaky, compagno inseparabile di un noto barbone genovese, inconfondibile per una bizzarra macchia bianca sul muso, sonnecchia accanto a un barbone praghese. Lei lascia cadere qualche corona nel suo piatto.Il barbone ha un piccolo sobbalzo, poi fa un cenno con la testa in segno di ringraziamento. Ciao Blaky – lei dice, salutando il cane : che si scuote, sbadiglia, la guarda dritto negli occhi, poi salta in piedi e calorosamente, scodinzola: si chiama Blaky anche lui.

La folla non è anonima a Praga: di ogni passante conosce nome e cognome. Li ha già visti e incontrati – da vivi o da morti?

Altre visioni

Nel cimitero ebraico gracidano le cornacchie sugli scheletri degli alberi, forse per rendere omaggio a Kafka – kavka, “corvo”. Si spiegano così quelle presenze. Sono lì per colore locale, o sono lì perché ogni cosa, in questa città, evoca qualcuno o qualcosa e i visitatori lo sanno, gli scrittori lo hanno già scritto, i lettori hanno già letto, tutto è nei muri e nell’aria praghese, basta solo fare un po’ di attenzione per accorgersene. Poca ne basta, e sotto gli strati profondi dell’aria appaiono e scompaiono reperti di un’archeologia letteraria in perpetuo movimento. Obbedendo senza esitazione al richiamo analogico – corvo-Kafka-cimitero – lei cerca la sua tomba che non c’è, dato che là non si seppellisce più nessuno da trecento anni, e Kafka dorme altrove.

Il cimitero si compone non casualmente di 13 strati, perché il 13 è il numero della morte e, per chi ci crede, della trasfigurazione. Oppure del passaggio nel nulla: il numero degli strati si è fermato a quel terribile numero, e infatti, tutto qui, guardandosi in giro, si conclude in se stesso. È un luogo andato al di là del suo tempo e quindi veramente morto e museificato, buono per i turisti, voyeurs di rovine.

Si accorge, tra quei cippi, stele, lastre grigie addossate l’una all’altra, di due creature – spazzini-sorveglianti? – uno in tuta sportiva, giubbotto rossogiallo, berretto violablu, clown con in mano uno scopino spennacchiato, curvo a spazzare via qualcosa. Ma non c’è nulla da spazzare, neppure una foglia o un rametto perché gli alberi sono lontani, nudi e secchi, e cosa vede per terra lui solo lo sa. L’altro ha una pancia straripante e una faccia idiota da becchino shakespeariano o forse è un umanoide da gothichorror, che abita i cimiteri e dorme dentro una tomba vuota. Sbuffa mentre pancia e culo gli si incastrano fra le pietre tombali, ma lì,in quel luogo, che ci fa? Anche queste due creature sono colore locale per turisti? Intanto dei ragazzi in gita scolastica, tutti indistintamente in piumino nero e zainetto, sfilano in processione lungo il sentiero intorno. In città, si incontrano un po’ dappertutto, si chiamano da una strada all’altra, rincorrendosi, travolgendo i pochi autoctoni che passano, con l’aria tra l’indifferente e il rassegnato. È questa l’età per vedere Praga per la prima volta? E’ a loro che appartiene quello stato “vergine,non letterario”di cui qualcuno ha parlato ?

Riporta lo sguardo sull’ammasso di tombe: tutti questi morti, pensa, non sono deposti orizzontalmente, strato su strato, ma stanno in piedi uno accanto all’altro per farsi compagnia… È un’idea così stupidamente “poetica” da vergognarsene. I morti essendo troppi – secoli su secoli ossa su ossa – stanno in piedi per un’ovvia questione di spazio. Lo stesso spazio che a loro è mancato quando, sulla terra, camminavano. Ma il suo indomito spirito poetico, riaffiora con un’ulteriore spiegazione: stanno eretti per non darsi per vinti, cioè per morti, in un’ostinata simulazione della vita. Per contestare la postura orizzontale alla quale si sottopone solo chi è morto, morto finito. Nella Grecia antica non si piantavano pietre verticali per fermare sulla terra lo spirito errante dei morti, di cui le pietre erano i doppi, i loro sostituti e testimoni? Qui i morti stanno eretti in attesa della Resurrezione secondo la Legge del Mutamento che li vuole morti oggi ma vivi domani ; stanno eretti come attori travestiti da falsivivi e falsimorti, e perché da quella postura sono pronti a scattare, per essere i primi a sgranchirsi le gambe nel Cielo Promesso.

Pensa al mondo – nero, prosciugato, osseo, del sottosuolo. Agli scheletri neri, alle ossa nere, contorte, spezzate, impastate a terra nera, a un’abissale, vertiginosa architettura di ossa, con il vuoto da tutte le parti che spunta tra un perone e una tibia, dai buchi dei nasi, degli occhi e dei denti – il rovescio assoluto di quella pietra multicolore e splendida che respira nei palazzi, là sopra, all’aperto. Ma dopo tanti secoli, là sotto, non sarà tutta polvere? Là, più nulla ormai può degenerarsi, marcire. Una mappa labirintica di fantastiche strutture asciutte, un caos dell’inorganico e del minerale con punti che non combaciano, linee frante, cerchi e angoli disarticolati, come doveva essere, all’origine, l’universo. E la lingua con le sue lettere slegate come sassi, slegate e dure ma che poi cominciano ad avvicinarsi l’una all’altra, ma ancora sorde, incapaci di vibrare perché manca loro una fessura – la gola umana – per accogliere l’aria, e con l’aria la pausa, la saliva, il respiro, e infine il suono.

Pensa alla Resurrezione dei Morti di Signorelli a Orvieto: i morti salgono, si affacciano su un suolo bianco, risuscitano da un orizzonte di bianca polvere. Quel bianco silenzioso è il colore del luogo d’arrivo, il colore della polvere delle loro ossa che da nera si fa bianca mentre risorge. Forse non esiste se non nei sogni o nel punto estremo di un delirio. Mai Piranesi avrebbe disegnato paesaggi aperti, carceri spalancate, spazi bianchi… Conclusa la sua opera, dice la leggenda, si lanciò nel vuoto dall’alto di una scala: finalmente si sarebbe incontrato col bianco – il freddo colore dei fantasmi, dello spirito separato. Libero dal corpo, dalle sue emozioni dense e terrigne … Chi invece, come Francisco de Quevedo, scrisse:

Alma a quien todo un dios prisiòn ha sido,

venas que humor a tanto fuego han dado,

medulas que han gloriosamente ardido,

su cuerpo dejaràn, no su cuidado;

seràn ceniza, mas tendrà sentido;

polvo seràn, mas polvo enamorado.

intendeva portare con sé le emozioni sottoterra.

Se si rappresenta il vuoto con il colore bianco o lasciando bianca la tela, è perché il vuoto è parte strutturale della natura, del cielo e di ogni architettura, come dell’immaginazione umana: è partenza e destinazione – mistero originario e ultimo.

Com’è che Evangelista Torricelli ha scoperto il peso dell’aria? Ma come, se non attraverso i sensi, soffrendo il caldo nella sua Faenza? Così pensa lei. Se è anche vero che il simbolo dello zero (e quindi del vuoto) fu teorizzato nell’afosa università di Fez… Il corpo è sempre punto di partenza e attraversamento, proprio come il vuoto: che continua a sbucare senza preavviso e a tormentarci.

Ma ora, nell’assiepato cimitero ebraico, una visione le appare alzando appena le palpebre: è il deserto egiziano di 2500 anni fa, e l’armata di Cambise, re di Persia, lo sta percorrendo. Sa che scomparirà nel nulla, mentre marcia alla conquista di Cartagine. Un esercito di 50.000 uomini e cammelli, oltre a donne, schiavi appiedati e vari animali da soma e da battaglia. Una tempesta di sabbia della forza di un tifone lo travolge e inghiotte senza lasciare di sé la minima traccia. E ancora immagina quei momenti – quanto durano? ore, minuti, giorni interi? – in cui, senza testimoni se non la stessa sabbia, l’hamsin, turbinando, riporta alla luce tutte quelle ossa sepolte da millenni (le ossa bianche di 50.000 uomini e dei loro animali, e gli scheletri dei carri, delle armi, armature e bandiere), scoperchiando un immenso cimitero. Ossa che sotto il sole abbagliante si sono fatte bianche,bianchissime.Il vento, l’unico elemento di moto e di vita in quei luoghi vuoti, è lo stesso vento che, come la luce diurna, può dare la morte. Lei immagina la stessa scena sotto i raggi della luna mentre una voce dolente chiama Uen,uen, sceikh el Arab uen? (“dove, sceicco degli Arabi, dove?”) cantilena di chi è in preda all’angoscia; quel “dove?” che Omar Kayyamm fa chiedere alla tortora, unica superstite di una città abbandonata.

Dalle sabbie del deserto,il filo della memoria la conduce alle cave di pietra a Cusa, in Sicilia, visitate al tramonto. Hanno fornito le pietre per la costruzione dei templi di Segesta e Selinunte. Le guerre coi Cartaginesi interruppero questa linea continua e sacrale tra materia originaria e edificazione. Le pietre – enormi – sono lì, sotto una luce incredibilmente d’oro, spezzate e sparse sul terreno come se gli operai le avessero abbandonate non da millenni, ma da una sola notte. In quel luogo reale e insieme metaforico, l’illusione dell’immutabilità – tempo come pietra e viceversa – è perfetta. Ma fino a che punto questo spettacolo così fascinoso è “vero” e non “costruito” come un’installazione per gli occhi dei turisti? E infine, ha un senso chiederselo? Che differenza farebbe?

Com’era prevedibile, forse Praha ha spalancato la sua porta anche a lei. Doppi, sosia, replicanti, cloni, somiglianze, ricordi, non sono che segni del desiderio di permanenza. I doppi circolano per le strade, perché è dietro il sipario che attori, simulacri, ombre e spettri si muovono, mimando una seconda vita. Gli specchi, gli schermi, le fotografie, la tecnologia digitale, simulano resurrezioni. L’immagine è il doppio, e il doppio è diabolico,infernale.

Forse solo a Praga poteva nascere il primo uomo virtuale, quel Golem antenato di Frankenstein e di tutti i duplicanti digitali. La logica del mistero è sempre costellata di coincidenze: è infatti solo a Praga, che un certo Karel Capek, inventò la parola robot e non in altri luoghi.

L’isola delle voci

Una bambina, l’abito di flanella, la guancia tonda, l’occhio perduto. È seduta compostamente su una panchina dell’isola di Kampa, si dondola. Ogni tanto carezza un gatto grigio, un soriano da strada malfamata. E un bambino, ricciuto e infagottato, disegna senza alzare mai la mano dal foglio, e vicino a lui, c’è un’altra bambina dalla treccia bionda lunghissima e l’aria ansiosa. I suoi due compagni di scuola preferiti, stanno lì. Su una panchina, in fondo alla piazza, suo padre giovane: pantaloni bianchi, sigaretta semispenta tra le labbra, legge il giornale.

Forse lì abitano i bambini morti che ora sono adulti da un’altra parte, e qui è rimasta per sempre l’infanzia di tutti gli adulti della terra. Qui vivono le piccole anime degli animali amati, i doppi profondi che non ci tradiscono se siamo fedeli a noi stessi.

Sua madre la sta guardando. Porta un cappello a falda e un ricciolo inconsapevole le spunta sotto: è lei, lei viva e giovane – e non nella fotografia che, sul suo comodino, la ritrae così.

Ma ora che scrive tutto questo non sa da dove le sono giunte queste apparizioni, se veramente a Kampa ,o solo adesso, mentre ricorda quel luogo così adatto a loro. E mentre scrive, improvvisamente, le viene in mente Passeggiata nella notte di Capodanno, dove Andersen attraversa una labirintica Copenhagen notturna, molto, molto simile a Praga.

La sera dell’ultimo dell’anno del 1828, me ne stavo tutto solo nella mia stanzetta…In quel momento, lo spirito del male, noto col nome di Satana, si introdusse in me e misuggerì il pensiero peccaminoso di diventare scrittore[…] Ero immerso in profonde riflessioni quando sentii un lamento…mi voltai verso quel suono e vidi un piccolo gatto in cima alla fontana, nel chiarore della luna[…] Io non me ne rendevo conto ma il Gatto con gli stivali di Tieck e Il gatto Murr di Hoffmann volteggiavano davanti alla mia anima[…]Era un giovane poeta, uno spirito imparentato col gatto Murr, che come altri giovani poeti, esprimeva sia il suo reale dolore che quello da lui stesso poetato: per lui l’infanzia aveva una luce magica, mentre il presente era una notte nera come il carbone e così via. Povero poeta, povero gatto! – esclamai – ma lui non mi udì perché cantava secondo una vecchia melodia, la sua canzone: Mi prese un’intensa nostalgia / perché lasciai lacasa dell’infanzia / dove bevevo solo latte e panna / i dolci dolori e piaceri dell’infanzia /e il cielo nel petto di mia madre

Mentre scrive si stacca con difficoltà da questa visione e dalle parole di Andersen che ha voluto riportare sulla pagina fedelmente.

Deve scrivere anche dell’ultima sera a Praga, sull’isola di Kampa.

Kampa: piccolo lembo di terra con la leggenda del poeta Hòlan che vi si è realmente autoesiliato. Questa visita notturna – lei scriverà – segna il congedo da Praga. Cielo limpido, luna calante. Un classico da cartolina, incipit da raccontino ottocentesco. Silenzio di Kampa affacciata sulla Vltàva e sulle quinte della città: a sinistra il Karluv most, e le sue torri di entrata e uscita; dietro a lui, in alto, il Hrad con la Katedrala; di fronte, sulla riva opposta, i palazzi illuminati e più in là il Nàrodni Divadlo. La Vltàva quasi non respira. Lei è a Praga insieme a suo marito che molto tempo prima, aveva scritto un libro, intitolato semplicemente Praga, senza però averci mai messo piede. Lui non voleva proprio venirci, a Praga, troppo l’aveva consumata nell’immaginazione per non temere l’impatto-sempre deludente – con la realtà.

C’è una panchina e si siedono. Allora quella domanda, che si riservava di fargli solo alla fine del viaggio, prorompe:

- Ebbene, come ti sembra questa Praga?

Lunga pausa.

- Supera la mia immaginazione.Qui mi riconcilio coi miei fantasmi, col fantasma che sono stato.

È una bella frase, un po’ enfatica forse.

Solo un po’ di chiarore in noi si mescola

e l’oscurità già lo esaurisce.

Siamo di indifferenza e di rovine….

-Vladimir Hòlan? –lei chiede.

-Sì. Mi sembra giusto ricordare qui il suo genius loci.-lui risponde.

- Ma questa isola non è un hortus conclusus. E chiamarla isola è un “falso”: è legata alla città ma nel buio non si può scoprire come.

Guardami attraverso

eccomi, ancora una volta,

vieni

più vicino, non mai

ero un altro

che me stesso.

- Paul Celan?

Anche noi vogliamo essere

dove il tempo dice la parola di soglia

- Ancora Celan. E soglia, non è praha?

Si avviano lentamente verso il bosco. Buio assoluto, alberi spogli, nessuno. Pochi passi e si risiedono su una panchina di ghiaccio. È passata la mezzanotte.

Il soggiorno all’inferno era di natura divina…

Non era dunque la natura divina delle cose che scuoteva

il mio vigoroso animo, ma la malinconia –

- Amelia Rosselli?

Eppure, in quel luogo così malinconico, loro non avvertono malinconia. Forse è l’energia invisibile dei versi a non farli sentire né tristi né perduti.

Vorrei che la mia anima ti fosse

leggera, che la mia poesia ti fosse un ponte

sottile e saldo…

-Antonia Pozzi?

Gelo, fumo un passo nel bosco vuoto…

La casa silente e le saghe del bosco,

misura e legge e il cammino lunare dei solitari

- Georg Trakl?

Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:

è quello di cui tu hai paura.

Io non ne ho paura: ci sono stata

- Sylvia Plath?

Una scrittrice in fondo, è una spia

Quella donnasono io, amore caro

Uno scrittore in fondo è un imbroglione

questo uomo sei tu, amore caro

- Anne Sexton?

Qualcosa di strano – dentro –

quella che ero –

e quella che sono adesso – due cose divise –

potrebbe questa essere – Pazzia?

- Emily Dickinson?

- Forse un senso profondo della vita è possibile solo nei suoi aspetti estremi.-dice lui.

- Perché non li ricordiamo tutti, qui,ora?- dice lei.

- Sergej Esenin, Vladimir Majakovskij, Marina Cvetaeva, Attila Joszef, …

- Remo Pagnanelli, Vittorio Reta, Patrizia Vicinelli, Nadia Campana, Claudia Ruggero,Beppe Salvia, Giuseppe Piccoli, Marco Amendolara,Lorenzo Pittaluga…

Leggimi di notte,

come io scrivo

fallo pietosamente, con indulgenza

perché lo sai, sono nato sfinito

Si alzano da quella panchina mortale avviandosi verso “Il mulino del diavolo”, alla Certovka. Nessuno. Il mulino è immobile, come in cartolina. Di notte, qualcuno lo ferma. Per i turisti in cerca di facili metafore.

Forse solo i pazzi e i poeti morti passeggiano qui, di notte, senza illusioni- dice lui.

- Ricordi? – dice lei – Siamoarrivati a Kampa. I sogni sono finiti…L’hai scritto tu,nel tuo libro.

- Già. Ma non sono più di quell’idea. Dovrei riscriverlo- risponde lui.

Abbandonano il mulino, tornano sul sentiero che conduce al most Legil dove si fermano a guardare Praha per l’ultima volta, ma da quest’altra prospettiva. Mentre la Vltàva scivola sotto di loro, li sorprende alle spalle, oltrepassa e va verso

Alla loro destra, il Nàrodni e il Nova Scena sfavillano: sono un unico prisma – anche se a quell’ora, gli spettacoli sono finiti ed è completamente vuoto.

Dietro le facciate vedere quel

che mai avrei voluto sapere, dietro

ogni facciata vedere

quel che oggi non v’è.

Abbandoniamo Amelia e tutti gli altri.

I morti a Praga non solo si vedono, ma si fanno ascoltare.

Lucetta Frisa: “A Praga si vedono i morti” da “La Torre della Luna nera e altri racconti”

 

Lucetta Frisa  “La Torre della Luna nera e altri racconti”, Postfazione di Ivano Mugnaini, Puntoacapo,2012



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