Che il teatro sia politica, questo è indubbio; che possa influire direttamente sui voti no, non lo credo. In questo la televisione è molto più forte, essendo più diffusa e anche più autorevole per le persone meno provvedute, che magari da sole non saprebbero orientarsi e possono essere più facilmente trascinate. Il pubblico che va a teatro, invece, di solito ha già la sua idea. E’ un pubblico elitario, che sceglie di andarci, e normalmente opta per gli spettacoli che ritiene più vicini alla sua idea non solo estetica, ma anche politica.
Qual è la valenza politica del teatro?
Il teatro è una forma di comunicazione viva nella società, perché è sempre qui e ora, quindi è sempre attuale, anche quando parla del passato, anche quando è museo. Nel suo essere qui e ora diventa parte integrante della vita civile: espressione essenziale della vita politica. E lo è anche quando non sa di esserlo, anche quando è teatro di mercato, superficiale: in quei casi esprime la politica del disimpegno. Il teatro inoltre è un avvenimento sociale, non è qualcosa che si fa per sé. Alcune forme artistiche sono più individualistiche e private; ma il teatro no, esiste solo nella comunicazione, e quindi è politica.
Il mio teatro, essendo ‘d’autore’ o ‘d’autrice’, ancor più intende porsi come un elemento vivo e dinamico della cultura del momento. Io non faccio operazioni a tavolino, che manifestano l’esigenza di raggranellare un buon incasso più che quella di esprimere idee. Il mio teatro nasce da una scelta precisa: una scelta di impegno. Nasce dal bisogno di pormi su un piano dialettico con il pubblico. In questo senso è un teatro che entra direttamente nelle idee del momento.
Tu hai iniziato a fare teatro negli anni Settanta e hai vissuto la parabola del femminismo. Ti definisci tuttora una femminista?
Questa parola ha caratterizzato un’epoca che appartiene ormai al passato, per cui oggi viene usata molto meno, e ad alcuni sembra quasi una parolaccia. Io francamente non ne ho paura, e non posso non dirmi femminista perché è un’avventura che ho vissuto e ritengo fondamentale per l’evoluzione della mentalità femminile. C’è da dire però che in quegli anni non ero considerata un’ortodossa e alcuni miei spettacoli furono accolti con un certo sospetto.
E che oggi non esiste più. Che effetto ti fa passare davanti ai luoghi “storici” della sperimentazione teatrale e vederli trasformati in negozi o ristoranti?
Non sono una nostalgica. Le cose passano, ma poi ne nascono altre. Io gestii personalmente, per cinque anni, un teatro “underground” romano che si chiamava l’Alberico, nel quale si esibirono tra gli altri Roberto Benigni, Carlo Verdone e Marco Messeri. L’avevamo aperto noi, un bel gruppo di giovani teatranti; facevamo i nostri spettacoli e in più ne ospitavamo altri. Avevamo due spazi: un vecchio garage a livello della strada che avevamo rimesso a posto, con un palcoscenico abbastanza grande e una platea di 150 posti; e sotto c’era un cantinetta piccolissima con un palcoscenichino-buco di due metri quadri e una plateina con sedie volanti. Lì si facevano i monologhi, perché niente di più poteva entrarci.
E’ stata una bella fucina di invenzioni, ognuna delle quali ha poi preso la sua strada. Non mi sembra produttivo restare ancorati al “come eravamo”. Se siamo ancora vivi, le cose le facciamo da un’altra parte. Io posso non amare il tempo presente se non mi piacciono certi modi di vita o certe mode culturali, ma semplicemente non li inseguo: perseguo invece le cose che mi piacciono e lotto perché vadano avanti.
Negli anni Settanta la nostra attività era effettivamente appoggiata da un grande interesse da parte degli intellettuali, della stampa, delle forze culturali. Diciamo che l’arte e la cultura erano di moda. Negli anni Ottanta c’è stato invece un precipizio verso il basso. Un contraccolpo e quindi un ritorno ai teatri ufficiali: velluti, lusso, la comodità delle poltrone contro la scomodità delle nostre sedie volanti... anche giustamente, se vuoi, ma con questo riflusso è tornato il disimpegno, il teatro di intrattenimento, ben confezionato ma inesistente.
Gli anni Ottanta, inoltre, sono stati quelli della ricerca del consenso da parte dei nostri pessimi politici, che elargivano briciole di assistenzialismo per avere voti. Fregandosene se l’Italia accumulava debito pubblico e andava a rotoli, ma tanto “après moi le déluge”; e senza nessuna politica culturale, anzi. In quel periodo si sono poste le basi per il trionfo della peggior televisione, quella berlusconiana, che è diventata il modello anche per la RAI. E poi c’è stato il terremoto degli anni Novanta, la tensione alla trasparenza, la volontà di ripulire e riportare una centralità sull’arte. Che ancora non è stata realizzata. Il principio che un Paese sano, anche politicamente, è un Paese in grado di esprimere cultura non sembra molto presente. Ma ci sono segnali che fanno ben sperare.