Lucia Tozzi | Fondare città - Archeologia della new town

Creato il 23 ottobre 2013 da Wilfingarchitettura @wilfing

di Lucia Tozzi
   Charley in New Town è un cortometraggio di animazione promosso dal COI - Central Office of Information - del governo britannico nel 1948. L’uomo medio Charley, sfinito dalla vita alienante della metropoli, decide di andare a vivere in un luogo più salubre, tra alberi, biciclette e vicini cordiali. Potrebbe essere nell'America di Roosevelt come nella Mumbai contemporanea. L’elemento che lo rende esotico è che il suo trasferimento non riguarda una generica area rurale o una gated community, ma una New Town pianificata nell'interesse collettivo.


   Il modello promosso dal cartone animato governativo era quello definito dal New Towns Act (1946), che rielaborava le città giardino di Ebenezer Howard adattandole all'era del welfare e della ricostruzione postbellica. Queste celebratissime New Towns inglesi erano il prodotto di un pensiero molto evoluto, che affrontava la congestione urbana evitando a un tempo i tappeti di villette dei suburbi e il ricatto della densificazione selvaggia, dando priorità alla questione dei trasporti e dei servizi e garantendo una complessità relazionale sconosciuta alle soluzioni imposte nei decenni a venire dagli esiti più ottusi del modernismo. Questo non significa che quelle città o le loro imitazioni sparse per il mondo siano le più belle, le più intelligenti, le più radicali sotto il profilo urbanistico mai concepite, anzi. E tuttavia incarnavano ideali egualitari e redistributivi che forse nessun progetto successivo, per quanto eccelso, ha più potuto o voluto incarnare.

   Gli anni Sessanta e Settanta hanno prodotto delle città che nel migliore dei casi manifestavano un eccesso di disegno, di astrazione, di determinismo sociale, di carica utopica, ma spesso erano semplicemente piatte riproduzioni di uno standard privo di qualità (i tanto deprecati casermoni). Dagli anni Ottanta in poi invece la pianificazione di nuove città ha abbandonato ogni velleità egualitaria, per mettersi al servizio del mercato immobiliare. Come racconta Federico Ferrari in La seduzione populista (Quodlibet, 2013), la pianificazione viene in quegli anni subordinata al marketing, all'imperativo di «ciò che piace alla gente» - in funzione del guadagno privato, naturalmente, e non dell’interesse collettivo. Celebration, la città fondata in Florida dalla Walt Disney (detta anche Mickey Mouse Utopia), è uno dei simboli più importanti di questo cambio di paradigma: voluta da una corporation e non da un’istituzione pubblica, è un’enclave omogenea di ricchi bianchi.


Celebration,Florida

   Sul piano estetico è una giustapposizione di case in stile che ciascun acquirente ha potuto scegliere da un catalogo: la Mediterranea, la Vittoriana, la Coloniale, etc., mentre le regole della convivenza tra i suoi abitanti sono decise dall'immobiliare piuttosto che dalle leggi comuni. Mentre la retorica neoliberale demonizzava la pianificazione urbana, frutto del razionalismo modernista, attribuendole un’azione invariabilmente nefasta nei riguardi delle libertà individuali e del senso estetico comune, di fatto le grandi società immobiliari avocavano a sé il diritto di pianificare le città plasmandole intorno ai propri interessi, e lasciando agli individui lo spazio ristretto della scelta legata al puro consumo. 

   La quasi totalità delle New Towns sorte negli ultimi trent’anni è conforme a questo modello, peraltro non meno seriale del canone modernista – a Dubai o nei satelliti di Shanghai si trovano le medesime case in stile messicano o toscano, un vernacolo standardizzato. E, fenomeno ancora più inquietante, sono moltissime, ma la maggior parte della popolazione mondiale non ne sospetta l’esistenza. L’attenzione globale è distratta, mentre le terre si affollano di nuovi centri urbani distopici. 
   Un gruppo olandese di storici dell’architettura, Crimson, in collaborazione con INTI (International New Town Institute), ha analizzato questa situazione in un progetto intitolato The Banality of Good, indagando tra le altre cose il ruolo che architetti e urbanisti hanno avuto in questo processo. «La posizione dell’architetto è cambiata radicalmente in 60 anni di pianificazione: da un ruolo discreto ma di un certo peso dietro le quinte a una grande visibilità come designer di icone ed edifici commerciali che interviene solo nelle ultime fasi. La pianificazione delle nuove città in sé è diventata roba da burocrati e ingegneri. Gli architetti non vengono neppure consultati sulla struttura e gli obiettivi».


   È possibile invece, si chiedono i Crimson, un rinnovato coinvolgimento in un processo di così ampie proporzioni? Bisogna decretare il fallimento definitivo delle politiche di welfare urbano espresso dalle New Towns postbelliche o invece si può tentare di cambiare il corso progettuale di centinaia di future città dirottandolo verso un maggiore benessere dei milioni di abitanti che le popoleranno? 
   Una simile ostentazione di fiducia nel potere benefico, quasi salvifico, della progettazione urbana è il segno dell'olandesità dei Crimson. L’idea (positiva, dal mio punto di vista) che si possa tornare a pianificare delle città nuove inclusive, in funzione del principio di uguaglianza invece che della segregazione sociale imposta dal marketing urbano, non può che provenire da uno dei pochissimi paesi al mondo dove il welfare resiste ancora – benché a fatica, e con mille contraddizioni –, e soprattutto dove si continuano a fondare città che potremmo definire “innocenti” o “miti”. Meglio ancora, più che le città in sé è il movente della loro fondazione ad apparire meno aggressivo, meno violento rispetto alle altre città di fondazione: nei Paesi Bassi si creano nuove città perché ci sono i nuovi polder, perché continua quell'opera secolare di sottrazione di spazio all'acqua che ha impregnato la sua cultura, e il loro scopo primario è fornire nuovo spazio da abitare e da vivere per gli abitanti, in maniera non dissimile dalle New Towns inglesi. 
   La fondazione delle città nel mito e nella storia anche contemporanea è invece quasi sempre un atto di grande violenza materiale e simbolica. Frutto dell’espansione coloniale, di una volontà di propaganda o di brame capitaliste, e il più delle volte di differenti combinazioni di questi elementi, le fondazioni sono un affare di sangue. Da Romolo e Remo agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dai massacri nelle Americhe ai milioni di lavoratori in stato di semischiavitù che stanno costruendo le metropoli cinesi e mediorientali, lo scenario non è quello di una pacifica cooperazione tra Hobbit, ma di un’aggressione. E anche i casi più solenni e apparentemente inoffensivi come la pianificazione di nuove capitali amministrative e politiche, di cittadelle utopiche prodotte da comunità di hippy o da sette religiose, sono carichi di valenze tutt'altro che innocue. 
   Ma ha senso pensare di democratizzare un processo violento attraverso una prestazione professionale, una competenza culturale estranea al contesto politico che l’ha generato? Un piano eccellente potrebbe forse attutire l’orrore dell’occupazione israeliana o di un regime autoritario o dello sfruttamento capitalista? La risposta è no, e in queste pagine il saggio di Hou Hanru sulle nuove utopie antiurbane cinesi e le riflessioni di Gianluigi Simonetti sulla vita nelle New Towns aquilane ne sono una conferma esemplare (ndr che si possono leggere sulla rivista Alfabeta2, n, 27, marzo 2013, pp. 16-18).
   Per riproporre l’archetipo benevolo delle New Towns gli architetti da soli servono a poco, bisogna prima riappropriarsi del welfare e di una cultura politica. E poi possiamo inventarci le nuove città.
23 ottobre 2013Intersezioni ---> CITTA'

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________________________Note:
quest'articolo è stato pubblicato con il titolo 'Fondare città - Archeologia della new town' su Alfabeta2, n° 27, marzo 2013* . Rieditato per Wilfing architettura grazie al consenso dell'autrice.


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