Saranno in tanti, martedì 22 dicembre alla Sala Trevi di Roma, a raccontare di Luciano Martino, il prolifico e divertito produttore cinematografico che ha scritto le pagine migliori del cinema popolare italiano.
L’occasione sarà la presentazione del libro di Olga Bisera, Luciano Martino. Un amore che vive. Olga Bisera è stata l’ ultima compagna di vita del produttore, morto a Malindi in Kenia il 15 agosto 2013, e il racconto, proprio umanamente, si protrae anche entro quelle che sono state le ultime ore di vita di Luciano Martino, ne racconta i suoi sogni ed i suoi dolori, i suoi tanti progetti mantenuti ancora nel cassetto, insieme alla disperazione del tempo che stava per scappare. Poi le pagine si fanno davvero divertenti e divertite, soprattutto nelle tante testimonianze raccolte e nei tanti ricordi riaffiorati. Tutti gli attori, che con il suo cinema sono diventati popolarissimi, hanno raccontato le tante vicende umane e professionali vissute ed i tanti traguardi raggiunti dentro un cinema sempre più vispo, fluido, ridanciano, ma sicuramente concreto e vissuto. Luciano Martino è stato il produttore che più di altri ha creduto a fondo nella politica del cinema di genere. Li ha frequentati tutti, dallo spionistico al poliziesco, dal thriller all’avventuroso, dallo spaghetti western al post-atomico ed alla commedia sexy. Di quest’ultima sicuramente si sentiva un autentico padre, infatti bastava parlargli delle sue infermiere, delle sue soldatesse, delle sue liceali e davvero Luciano Martino si illuminava.
Il cinema di Luciano Martino, che lui ha sempre percorso con un certo criterio ed anche con una convinzione “d’autore”, era anche un cinema innestato di furbizie e di assoluti colpi di genio. E parlava sempre in termini creativi, di questi film, dei suoi attori, dei suoi registi, degli autori dei copioni, delle scene dei film. Un cinema davvero lungimirante il suo perché Luciano Martino riusciva sempre a dare al pubblico esattamente quello che il pubblico voleva. Era un periodo del cinema italiano, quello vissuto e prodotto da Martino, che andrebbe tenuto sempre ben presente e che finora non è mai stato studiato come si dovrebbe. Perché negli anni settanta l’estremismo di destra, lo stragismo, i servizi segreti deviati ed i golpe all’italiana, la corruzione venivano affrontati quasi unicamente dalla cinematografia popolare di genere, soprattutto dai cosiddetti poliziotteschi, completamente spogliati da implicazioni intellettuali, ed i titoli di Martino in questo contesto ne erano proprio i simboli: Milano trema: la polizia vuole giustizia, Milano odia: la polizia non può sparare, La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori, La polizia accusa, il servizio segreto uccide erano davvero esempi precisi di questi tentativi popolari di raccontare l’Italia più drammatica e misteriosa.
Di pari passo Martino costruiva anche serie cinematografiche che andavano ad intaccare le dimensioni del costume e dei poteri costituiti della società, film certamente privi, all’apparenza, di tratti sociologici o filosofici, ma proprio per questo hanno raggiunto oggi forti segni di dimensione antropologica. Insomma se vogliamo sapere davvero come era l’Italia degli anni settanta basta vedere sicuramente uno dei tanti titoli della filmografia di Luciano Martino, tempi senz’altro in cui i poteri costituiti dello stato, famiglia, chiesa, scuola, caserma, dominavano e minavano in assoluto le coscienze delle masse. Dunque se vi era una serie di film in cui si mettevano alla berlina proprio questi poteri, questi erano i film voluti da Martino, titoli quali, ad esempio, La liceale, La dottoressa del distretto militare, L’insegnante, La vergine, il toro, il capricorno erano gli esempi più lampanti. Vederli per credere. Film che sprigionavano anche una puntuale vis comica, copiata infine anche dagli americani negli anni successivi, gli anni ottanta e novanta, con titoli quali la serie di Porky’s, American pie o Tutti pazzi per Mary.
L’oltraggio, lo sbeffeggio alle istituzioni, a ben guardare, erano anche i peti di Alvaro Vitali, usati come metafore di lanciarazzi o simili, dove il suo sodale di sempre, il caratterista Lucio Montanaro, si offriva alle declamazioni tipo “…questo non é un culo, è una lupara…”. Insomma trovavi in quei film “scemi” situazioni e sketch lunghissimi tra gli attori, soprattutto tra Vitali e Lino Banfi, Gianfranco D’Angelo e Renzo Montagnani o Pippo Franco, Vittorio Caprioli, Carlo Delle Piane, Bombolo, Enzo Cannavale, battute su battute o monologhi, situazioni insomma in cui o sei bravissimo oppure fallisci. Questo era il cinema raccontato da Luciano Martino e questo sarà anche il cinema che si racconterà martedì sera al Trevi, attraverso il libro di Olga Bisera ed attraverso i ricordi dal proscenio, che saranno quelli di Marco Giusti, Giovanna Ralli, George Hilton, Pippo Franco, Martine Brochard, Steve Della Casa, Romolo Guerrieri, Malisa Longo, Italo Moscati, Antonella Salvucci, Diego Verdegiglio. Luciano Martino di fatto ha sempre rivendicato, in tutti questi anni, e proprio con forza, il fatto che i suoi film non erano affatto inetti o volgari, come semplicemente sottolineava la critica più colta nel momento culminante, ma che l’imperativo di questi film era la rappresentazione, offerta in maniera più semplice possibile, delle varie situazioni storiche che la società attraversava nel periodo, come il femminismo, ad esempio, raccontato nel momento in cui diventava sempre più scatenato e politicizzato, tanto da condurre anche in uno stato di timore il popolo maschile, poi i vari fenomeni dalla matrice terroristica, che insanguinavano e terrorizzavano il paese, soprattutto nel periodo tra il 1969 ed il 1980, l’anno della strage di Bologna. Insomma la portata storica del momento, in questa sana cinematografia “scema”, riusciva sempre ad essere presente, e senza scomodare esplicitamente chiavi di lettura come la politica più netta, la sociologia, la filosofia. Quello che restava essenziale nei temi, semplicemente, era di mettere alla berlina la fragilità conclamata dei maschi attraverso la chiave della rappresentazione comica, in secondo luogo, attraverso il filone del “poliziottesco” (etichetta coniata dalla critica colta), vi era il tentativo di raccontare i misteri e le tragedie del paese.
Giovanni Berardi