È la terza volta nel giro esatto di un anno che ho occasione di interessarmi al lavoro di Lucio Del Pezzo e di scriverne. Per due mostre istituzionali collettive e per una nuova personale milanese, da Arte 92. Nei primi due casi ho scelto il lavoro di Del Pezzo perché fondamentale nella storia dell'arte italiana ed europea del dopoguerra e dei primi anni 60 sino ai 70. In quei testi tentavo di ripercorrere quale fosse il clima dell'Italia, la voglia di ricostruire dalle macerie e di darsi un'identità anche con l'arte, e di ricucire l'intreccio dei movimenti che a questo rinnovamento concorsero con una vis che è davvero rara in altri periodi della storia sociale e dell'arte. La figura di Del Pezzo attraversa con vivacità sia il periodo della ricostruzione, sia quello del boom economico, arrivando a formulare negli anni 70 un linguaggio pieno che lo traghetterà sino ai nostri giorni. Qui dunque la mia ricognizione, pur di fronte alla vastità delle opere e dei periodi analizzati, sarà più libera e spero riesca a rendere pure in minima parte la complessità e attualità del suo lavoro.
Lucio Del Pezzo nasce a Posillipo il 13 dicembre 1933. È come se nella data di nascita fosse già tracciato il suo destino. Nato il giorno di Santa Lucia -la santa della luce e del guardare, una santa per alcuni versi partenopea- e per chi crede nell'astrologia sotto il segno del Sagittario: il senso del viaggio, dell'avventura e della scoperta che pare sia la caratteristica prima di questo segno non lo abbandonerà mai, come l'attingere alla tradizione che guarda i segni e si nutre di simboli. È giovanissimo Del Pezzo quando assiduo frequentatore dell'USIS, l'Istituto di Cultura Americano, dove si recava per consultare riviste d'arte e monografie di tutto il mondo, è a pieno titolo animatore del clima culturale partenopeo ed è tra i fondatori del Gruppo 58. Tra i temi centrali del gruppo l'atteggiamento critico verso un astrattismo tout court o meglio formale, mentre forte è l'interesse antropologico per l'uomo, teso ad indagare e " stabilire il rapporto fra civiltà e miti primordiali". Compito dell'artista sarà " gettare un ponte tra il presente della nostra civiltà spirituale e l'origine, dimostrando quanto questa civiltà sia ancora capace di cantare con semplicità le albe primordiali pulsanti nella memoria del suo sangue". È evidente come in quest'ottica fosse inevitabile il recupero di una figurazione di derivazione surrealista e dada, nonché l'interesse per il nucleare e il Cobra. Anche qui c'è tutta la voglia di ricostruire comune ad ogni movimento dell'epoca, decisamente più libera da istanze contingentemente politiche, ma non da una vis polemica espressa chiaramente nel 1959 dal Manifeste de Naple. In questa prima appartenenza c'è già il germe di gran parte del lavoro di Del Pezzo e si arrivano a comprendere lavori fondamentali ben più lontani nel tempo quali Africa (1990) dove l'Artista guarda alla dimensione tribale dell'uomo e ai suoi simboli con l'occhio di chi è riuscito a delocalizzarsi ponendosi dall'altra parte del mondo.
Nel gennaio del '59 Enrico Baj e Gruppo 58 espongono insieme alla galleria San Carlo. Quella tra Baj e Del Pezzo -come lui stesso ricorda- è una grande amicizia : "In una sua memorabile visita a Napoli, durante una passeggiata sul Vesuvio in cui firmammo anche un manifesto pseudo-nucleare, mi rimproverò di non prendere in considerazione abbastanza la nostra realtà culturale partenopea. Io avevo guardato al barocco, ai quadri monumentali di frutta e verdura e di pesci del Seicento: quadri intrisi di colore, di materia, coi cavolfiori ricoperti di goccioline d'acqua e i banchi delle pescherie gremiti di polipi e di cefali ancora guizzanti e con l'occhio lucido. Era questo il panorama che ci affascinava. Mettevamo sulla tela gomitoli di colature di smalti lucidi e grumi di materia grondante, ignari di Fautrier e Tápies. Allora ecco la folgorazione: basta riferimenti barocchi e sprazzi materici gratuiti. Le nostre icone popolari stavano lì, sotto i nostri occhi: nelle chiese e per strada, nelle edicole di devozione popolare; negli stracci, nelle bandiere della miseria che allietavano i vicoli. Quindi mi dedicai a queste panoplie di ex-voto, immerse nel magma della vita quotidiana. I modelli li avevo già lì, sotto gli occhi, non restava che trasferirli sulla tela."
Avrei potuto appropriarmi dei concetti di questa bellissima intervista rilasciata da Del Pezzo al Corriere della Sera anni fa e restituirli al lettore in maniera altra, ma perché privarlo delle parole belle del Maestro, liriche e lucidissime, in grado di materializzare l'odore del bucato nei vicoli e della trementina nello studio, testimonianza di come la generazione del dopoguerra fu di fini teorici capaci di affrontare la propria esperienza artistica e di descriverla con una consapevolezza teorica e umana veramente rara. E' il periodo delle opere "nucleari" dove la profondità della terra è spunto di riflessione sull'origine dell'agire artistico. Quello che trovo particolarmente interessante è che l'occhio sia chiamato a valutare nella composizione ogni singola porzione e che questa sia trattata quasi come oggetto a sé stante (seppur funzionale al resto). E questo è sicuramente il prodromo di tutto il lavoro successivo: permettere allo sguardo di trovare il proprio focus compositivo rimarrà una grande prerogativa del lavoro di Del Pezzo.
Invitato da Baj e da Arturo Schwarz, Lucio Del Pezzo arriva dunque a Milano, crocevia d'Europa e cuore pulsante d'un intreccio di movimenti artistici e di continue trasmigrazione d'intenti. Surrealismo, Cobra, Nucleare, Spazialismo: tutto passa per la Milano del dopoguerra e quasi tutti gli artisti attraversano le esperienze dei colleghi almeno a livello teorico. C'è voglia di scambi, c'è curiosità, c'è tanta fame ma la cultura è di più. Nel 1960 Pierre Restany pubblica il manifesto del Nouveau Réalisme organizzando alla galleria Apollinaire di Milano una mostra del gruppo e nello stesso anno Del Pezzo tiene la sua prima personale da Schwarz, lavorando sul concetto di assemblage. L'attenzione però che l'artista dedica all'oggetto è particolare e non risente minimamente dell'accumulazione dei Nouveaux Réalistes: organizza infatti i suoi reperti in una dimensione architettonica, anche se in maniera non subito evidente. Prendiamo Grande bianco del 1964: il focus compositivo -apparentemente fissato al centro sulla tavola rossa - è invece nel bersaglio scuro affiorante dal fondo e la tavola rossa rappresenta un pretesto narrativo, il tentativo di ordinare e dare un senso linguistico a quanto accade sotto, sulla tela. Più avanti questa volontà di indicare una linea narrativa, di organizzare simultaneamente coesistenze linguistiche differenti diventerà più ordinata e metafisica, da archeologo. E pur suggestionato da esperienze dada e surrealiste, l'accostamento dei suoi oggetti è dolente e indolente, non vuole provocare lo stupore da non sense alla Tristan Tzara, ma legare con il filo di un immaginario automatista le assonanze e la possibile convivenza di epoche e culture diverse. Dimostrandone la sostanziale uguaglianza, o meglio l'identica efficacia a livello linguistico.
E a proposito di nuovi linguaggi... Arriva il 1964 e la Pop art statunitense sbarca in Biennale a Venezia: con il pop gli States offrivano al vecchio continente la pluralità dei linguaggi, la simultaneità, la possibilità di slittamenti semantici rivoluzionari. Il mondo ufficialmente cambiava. Ancora una volta. Ho avuto modo di parlare con Del Pezzo, con Gianni Bertini, con Mimmo Rotella e tutti mi hanno detto la stessa cosa. Nessuno di loro, se pur comunemente in un certo momento del loro percorso artistico collocati dalla critica nel pop, si sente debitore dell'esperienza statunitense. L'attenzione europea è nei confronti dell'oggetto in quanto tale, non della sua raffigurazione reiterata ed esasperata sino a diventare icona del nulla, come fu per Warhol (che seppe trasformare questa ossessione estetica nella sua grandezza). L'esperienza italiana nello specifico recupera il senso del ready-made più che l' objet trouvè e questo permette la consapevolezza di una linea narrativa che pur prevedendo sovrapposizioni e interferenze linguistiche, non vive della dimensione sincronica e atemporale statunitense ma si muove in senso diacronico secondo quella linea che solo la matrice storica europea poteva offrire. Così mentre in Italia il pubblico scopre il pop, Del Pezzo è già a Parigi (per una strana combinazione del destino riesce ad affittare quello che era stato lo studio di Max Ernst), inserito perfettamente nel tessuto sociale e nel sistema artistico della Ville Lumière. A Parigi Del Pezzo incontra le radici del fare artistico italiano, le studia in una dimensione europea e riesce dunque a connotare i propri oggetti in maniera ancora differente. Del Futurismo c'è il gioco e la velocità: sfida, rebus, uso di calembours, metonimie, colore, ironia insomma il gioco che, propedeutico alla paideia, insegna a usare le capacità combinatorie del pensiero, a trovare soluzioni, a immaginare. Impossibile non cogliere lo stimolo ludico nei suoi lavori. Cerchi triangoli girandole scacchiere non più raccolti "per caso" e isolati, ma costruiti e colorati dall'artista per parlare la lingua del mondo. Della metafisica invece sarà quel senso di incompiuto e di struggimento, il desiderio etico di una perfezione che può avvenire solo in una dimensione senza tempo ma dalla forte tensione emotiva. Presto l'opera diventa essa stessa oggetto, riempie lo spazio, chiede allo spettatore un'interazione fisica e di orientarsi con essa in una nuova dimensione spazio-temporale.
Dunque del pop Del Pezzo raccoglie l'oggetto, non escludendo numeri, lettere, parole non solo per il valore iconico, non solo per il valore plastico e calligrafico, ma soprattutto per la possibilità ironica offerta dalla figura retorica e intrigato dalla potenza di contrappunti concettuali che anticipano per alcuni versi le ricerche di Boetti e di Salvo. Un'altra interessante chiave di lettura proposta da alcune scarne opere dei 70. Ma torniamo alle "cose". Quali sono gli oggetti su cui Del Pezzo posa il suo sguardo? Tutte le volte mi rispondo alla stessa maniera. Certo simboli archetipici, quelli che parlano prima all'inconscio e poi permettono alla mente il processo di riconoscimento e immedesimazione. Ma il Maestro è troppo colto per sceglierli casualmente o per sentito dire... La Massoneria ad esempio fa largo uso di simboli, individua in essi l'essenza stessa del proprio operare. Con questo non voglio applicare a Del Pezzo strane teorie, ma sicuramente integrare l'essenza al simbolo è un'operazione che apre alla matrice se non teosofica perlomeno concettuale del suo lavoro. Pierre Mariel, nell'opera Gli autentici figli della Luce, afferma: "Il Simbolo è l'essenza stessa, la ragione d'essere della Massoneria. Ciò che è visibile è il riflesso di ciò che è invisibile. (...) Il simbolo dunque, non è destinato a nascondere la verità. Il suo scopo è invece quello di selezionare coloro che, integrandosi a esso, si mostrano degni di accedere alla Realtà ultima" (Christian Jacq, La Massoneria: storia e iniziazione, pag. 227). Vediamoli questi oggetti-simbolo nella loro casuale (?) coincidenza o sovrapponibilità alla ricerca del Nostro. Ho controllato attentamente: ognuno di essi è ricorrente nella sua produzione. Per primo il Delta, la perfetta geometria del numero tre: nel pensiero pitagorico il 3 rappresenta l'ascesa dalla molteplicità all'unicità; nella religione cristiana simboleggia la Trinità, in ambito massonico va interpretato soprattutto come vettore direzionale, il cui vertice simboleggia la Dynamis, il lavoro rivolto alla gloria del Grande Architetto dell'Universo. I tre lati del triangolo indicano Libertà, Uguaglianza e Fratellanza e in essi spesso si inscrive l'Occhio Divino, fonte creatrice della vita. Sole e Luna uniti sono la dialettica degli opposti, l'alternanza del giorno e della notte, di luce e tenebre, di bianco e nero. La raffigurazione del sole poi in alcune opere di Del Pezzo è immediato richiamo a Melencolia di Dürer e a tutta la teoria alchemica susseguente. E nell'Architettura del mondo le Colonne, limite invalicabile(?), sono i pilastri su cui posa il Tempio di Salomone e su cui costruire l'edificio della propria vita, e il pavimento a mosaico in bianco e nero del portico del Tempio null'altro è che la continua lotta, in questo percorso, tra corpo e spirito, tra vizio e virtù, tra errore e verità. Il Filo a Piombo (altrove una sorta di trottola napoletana) elemento di congiunzione tra cielo e terra, individua una retta verticale infinita che conduce idealmente alla perfezione, viatico alla rettitudine e all'equilibrio interiore di ogni individuo. Squadra e Compasso strumenti indispensabili per forme regolari ed edifici stabili simboleggiano l'ordine degli elementi e delle leggi naturali che governano l'Universo. Secondo altri sarebbero invece legati al mare e alla navigazione: la squadra corrisponderebbe al sestante e il compasso all'arco di cielo di riferimento. Una sorta quindi di mappa stellare dell'emisfero boreale, una mappa del tesoro per raggiungere la via... E così i dodici segni dello Zodiaco, più che un riferimento astrologico, sono la varietà di forme del cosmo intorno alla Terra.
E poi ci sono le "semplici" forme geometriche: la perfezione del cerchio (magico, dai babilonesi ai celti) e la stabilità del quadrato che è la terra. Il Mistero Divino si esprime attraverso 3 + 1 = 4 (3 è Dio, 4 il Mondo). Ma il 4 dei suoi lati raddoppiato è 8, numero della Conoscenza, simbolo matematico dell'Infinito ( forse Pistoletto non ha poi inventato nulla, poiché già Del Pezzo invita alla dimensione sociale e di ricostruzione terrena di quello che sarà poi il Terzo Paradiso... ). Il quadrato è la necessaria base della Piramide: i quattro triangoli che partono dalla base terminano in Uno, il piramidion (la sommità), ovvero il divino. Dio è Uno nella sostanza e tre nel mondo...
Potrei continuare... ma svierei il lettore dalla Bellezza che queste opere svelano nella loro interezza emotiva, non nell'analisi logico-formale o esoterica.
Così ugualmente per distrarci da un percorso sicuramente iniziatico e riportarci semplicemente al Bello, inserisce il Nostro girandole e bersagli, lampi pieni di arcobaleno che mantengono la forza pop dei segnali stradali, mentre e ziggurat e scale, in ascesa verso corpi celesti o forse in discesa nella profondità dell'io, rafforzano l'afflato mistico e metafisico del suo lavoro.
Poi ci sono le chine che non hanno il colore a distrarre lo spettatore dalla pregnanza dei simboli e dal loro significato. E non è un caso che un corpus di raffinatissime carte di Del Pezzo, dall'incredibile accuratezza d'esecuzione, siano dedicate agli architetti (Gaudì, Andrea Palladio, Bramante, Borromini), mani terrene dell'Architetto dell'Universo. Sezioni e assonometrie sembrano circle crops disegnati per guidare all'atterraggio. Insomma qualunque intelligenza aliena avesse tra le mani un lavoro di Del Pezzo riconoscerebbe i fondamenti della civiltà.
Lucio Del Pezzo è nato il 13 dicembre 1933, ha dunque compiuto 82 anni. Eppure mi sconcerta ed emoziona più dell'analisi delle opere storiche, immense, la visione delle opere nuove. Sono incredibili. E vive. Del Pezzo l'archeologo che dal magma vulcanico della sua terra, dai panni stesi dei vicoli ha passato gran parte della sua vita ad incasellare in edicole votive gli strumenti necessari per andare avanti e ridisegnare il mondo, traccia nuove traiettorie sparpagliando in soffio di vento, come in sogno, di nuovo le sue carte. Geniale. È come se consegnasse con queste Disseminazioni il suo lavoro nelle mani di noi spettatori chiamandoci all'agire. In prima persona. Chiedendo di ripercorrere, adesso che ci ha fornito gli strumenti, strade nuove. Invitando a nuove consapevolezze.
In questi tempi duri dove si guarda il cielo per non combattere sulla terra, in questi tempi di astronavi e in cui si cercano segnali da pianeti lontani Del Pezzo aveva previsto tutto del necessario e umano ritorno al futuro.