Ludwig van Beethoven – Adolf Drescher (flügel) – Sonaten (1966)

Creato il 29 giugno 2011 da The Book Of Saturday

Compositore/esecutore: Ludwig van Beethoven/Adolf Drescher
Titolo: Sonaten Nr.23 op.57 Appassionata, Nr.14 op.27 Nr.2 Mondschein Sonate, Nr.8 op.13 Pathetique
Anno: 1966
Etichetta: JokerStavolta la sparo grossa, volo alto, e mi butto in un campo che non conosco. Non vi meravigliate se trovate storture o errati tecnicismi (sebbene abbia cercato di evitarne il più possibile): sono un neofita della classica, cercate di capirmi. Però ho trovato gusto nel cimentarmici, perché un conto è poi ascoltare, un altro buttarcisi a capofitto e vergarne contenuti, nero su bianco. Poi, su Beethoven è stato scritto di tutto, quindi mi sono affidato un po’ a quanto già si sa, ma molto ci ho messo delle mie percezioni. Per farlo ho preso un disco che posseggo in vinile, ed è un vinile che ha una storia, visto che fa parte dell’esiguo (ma non per questo meno rispettabile) “Fondo Bonomo”. Si tratta di una serie di dischi originariamente posseduti dalla famiglia di Maurizio, dal padre e dalla madre, insomma, una famiglia cresciuta all’ascolto della musica classica, a cui va tutto il mio grande rispetto immaginandoli seduti assieme sul divano a coccolarsi sulle note di Mozart piuttosto che di Rossini.

Il disco in questione è dunque uno degli originali più vecchi presenti in casa, risale al 1966, originalissimo. Maurizio aveva 14 anni, e a quanto sembra si divertiva a fingersi direttore d’orchestra. Il disco è introvabile (la foto di copertina è infatti eseguita dal sottoscritto, e scusate quel flash ma non avevo gran tempo da spenderci…), uno di quei vinili che, forse, si trovano solo nelle bancarelle, se siete fortunati. L’ho inserito tra gli album (e non tra i best of) soltanto perché in musica classica difficilmente troveremmo album come li intendiamo noi, non per questo però possiamo chiamarli best of, visto che non è il meglio di e neanche una raccolta come si fa nella musica popolare.

Nella mia discografia presenta la seguente intitolazione: Ludwig van Beethoven – Adolf Drescher (flügel) – Sonaten Nr.23 op.57 Appassionata, Nr.14 op.27 Nr.2 Mondschein Sonate, Nr.8 op.13 Pathetique. Non parliamo dunque di un grandissimo interprete, in quanto Adolf Drescher difficilmente lo troverete nell’olimpo dei pianisti di Beethoven. Allievo di Leo Blech presso il Conservatorio di Riga, Drescher ha fatto il suo debutto a 12 anni suonando Haydn. L’apice della sua carriera si pone nell’immediato Dopoguerra, con concerti e varie registrazioni. Morto per suicidio nel 1967 (quindi un anno dopo la pubblicazione del vinile in questione), egli si confrontò comunque con tanti compositori, da Mozart a Brahms, e tutto il filone della musica tedesca, anche quella più popolare e sconosciuta.

Qualcuno di voi si sarà chiesto cos’è il “flügel”. Facile: è il pianoforte a coda, tipico per concerti in ampie sale. Sono tre sonate (n.8, n.14 e n.23), rigorosamente riportate in ordine cronologico inverso, quasi un regredire alle origini dell’autore stesso. Difficile però commentare la bravura di Drescher, in quanto lo stato pietoso in cui versa il vinile, associato alla piattezza di suono dovuta alla scarsa qualità di registrazione dell’epoca, renderebbe l’impresa molto ardua. Mi sono quindi fidato del pianista, l’ho assecondato e ho finto che fosse Beethoven stesso in casa mia. Ed è un’esperienza che va fatta e ripetuta. Io ve la racconto così…

Era l’estate del 1804, e Beethoven era in vacanza nel villaggio di Döbling, a nord di Vienna. Un’abitazione di villeggiatura che gli trovò suo fratello. «Qualcosa di utile si può ancora fare”, usava dire, ciò che fu per lui la sua più grande ossessione. Quell’estate lavorò assiduamente su due composizioni, le sonate per pianoforte, opere 54 e 57. Quest’ultima meglio nota come Appassionata. Fu un titolo fittizio, come spesso accade per le opere dei compositori di quel periodo (lo stesso vale per le altre sonate di questa raccolta), ma questo titolo, scelto appositamente dall’editore, rispecchia anche la tensione che emana, la sua essenza: un’opera appassionata, per l’appunto.

Ricordava uno dei suoi allievi, Ferdinand Ries, in uno dei suoi appunti di quel luglio del ’4: «Siamo stati fuori fino ad ora, e non torneremo a Döbling prima delle otto di sera. È stato (Beethoven, nda) tutto il tempo a canticchiare, e più spesso a urlare, sempre su e giù, senza cantare le note definite. Gli ho chiesto cos’era e lui rispose: ‘Un tema che è appena nato in me per l’ultimo movimento della sonata (op. 57, nda).’ Quando siamo entrati nella sala, corse al pianoforte senza togliersi il cappello. Mi sono seduto in un angolo e ben presto lui non ha più fatto caso a me. Per almeno un’ora è stato assorto sul bellissimo finale della sonata. Alla fine si è alzato, rimanendo sorpreso che io fossi ancora lì e disse: ‘Non posso dare una lezione oggi, ho ancora del lavoro da portare a termine». Questo era il Beethoven “appassionato”, un genio, folle nella sua estrema vitalità e creatività. Incapace di staccarsi dal pianoforte (che poi era allora uno strumento di studio per la messa a punto delle opere d’orchestra).

Il nome intero della sonata è Sonata per pianoforte n.23 in fa minore, op.57, ed è ritenuta da Ludwig van Beethoven la sua più bella sonata assieme alla successiva op.78. Fu dedicata al conte Franz von Brunswick e probabilmente la storia sopra descritta fu solo la genesi di un’opera che invece, a quanto pare, impegnò Beethoven per almeno un altro anno, se non due o tre.

L’ingresso nel primo movimento, allegro assai (più allegro), trova la sua introduzione in uno dei motivi più famosi di Beethoven. Sentito e risentito, è anche un tornare sempre indietro, un arrestarsi delle convinzioni, un retrocedere sui propri passi. Il fraseggio di tasti che conclude ogni passaggio è un inesorabile salir di scale, a ogni gradino aumenta la sicurezza del compositore. E diventa virtuosismo, azzardo, un martellare di note (il piano in questo aiuta) che si aggrovigliano, ma senza mai abbandonare l’idea iniziale.

È un movimento primaverile (più che estivo), romantico, ricercato, quello che ha canticchiato nei boschi della periferia nord di Vienna, poco prima di chiudersi sul piano e fissarlo bene a mente. Allora, con un po’ di fantasia, ecco le rondini e le foglie, i lillà e le fronde degli arbusti che fanno capolino dai bordi del sentiero. Ma le scale di cui Beethoven si appropria finiscono poi tutte in laghi, vallate, distese di pini. E da lì si riparte, dopo una piccola sosta rigenerante, che è poi il secondo movimento, andante con moto.

Questa sembra essere la quiete prima e dopo la tempesta. Qui l’autore sfrutta le qualità del pianoforte, le sue differenze di sensibilità al tocco dei tasti. Questa è una composizione che abbandona il tema di prima, ma dopo un piccolo momento di stasi ecco arrivare una danza di soavi giochi di armonia. Lasciando spazio all’immaginazione, le mani del pianista assumono la forma di una coppia di ballerini che ad ogni scandir di tempo improvvisano giochi di piede sempre perfetti, sempre diversi, sempre più veloci. Per questo potrebbe anche essere un rondò.

Dopo tanto piroettare, un sussulto, la salita, la discesa, quasi un fuggire. Da cosa? Da chi? È una rincorsa affascinante, e una fuga imprevista. Il tema assume i suoi connotati, si distacca completamente dal primo movimento, e l’andante assume finalmente il suo moto, allegro ma non troppo: la sua ragion d’essere. In una linea continua, ecco piombare il tuffo, come in una piscina pronta ad esser sverginata all’alba dal primo bagnante della lunga giornata nascente. Sono buchi profondi, quegli affondi sui tasti, squarci, e con la sinistra, sui bassi, e con la destra, a ricamare trillati continui e sempre diversi. È anche (passatemi l’irriverente confronto) un momento molto rock, e la chiusura, degna di un solo finale a chitarre già staccate, testimonia quanta eredità Beethoven abbia lasciato ai suoi posteri.

Non so per quale motivo editoriale, ma la scelta della selezione non rispecchia intenti cronologici (vedremo che neanche la ragione di spazio trova giustificazione). Con la Sonata per pianoforte n. 14 in Do diesis minore, op. 27 (denominata per convenzione Al Chiaro di Luna, o Mondscheinsonate in tedesco), è forse la sonata più famosa e misteriosa di Beethoven, quella su cui si è speculato di più, e a me ricorda sempre il mio vecchio amico Amedeo ricurvo sul piano a viverla suonando. Si torna indietro di almeno 3 anni, e cioè al 1801, quando Beethoven aveva 31 anni, era già maestro, e questa sonata la dedicò proprio alla sua allieva prediletta, la Contessa Giulietta Guicciardi, con la quale sembra ci fosse stata una storia d’amore. L’autore ha poi aggiunto nel catalogo un Quasi una fantasia, perché infatti, rispetto alle sonate tradizionali, questa si presenta in tre movimenti anziché in quattro, e all’inizio con un adagio (seppur sostenuto) e non con un allegro. Quindi l’intera composizione è in realtà un aumentare dei tempi e dell’intensità, che solo alla fine, nel suo punto di massima rottura, troverà la sua immediata conclusione.

L’introduzione è di una meraviglia limpida e cristallina. È lenta e inesorabile, il pezzo non si allontana mai dalla pienezza dell’armonia iniziale, gli resta anzi sempre aderente e mai lo tradisce. Il chiaro di Luna, certo, ma quello arriverà più in là. A queste lunghezze d’onda è piuttosto l’altro lato della Luna, quello scuro, tenue, che si lascia per poco intravedere ma sempre troppo sfumato dal bagliore dell’altra metà che è difficile restare a fissarlo per troppo tempo, senza che poi infine gli occhi non si abbandonino ad ammirare la parte visibile. Il filo conduttore è sempre quella melodia di accompagnamento eseguita con la mano destra che con semplicità arriva a toccare le corde più profonde del cuore. E quelle pause. Che pause. Beethoven gioca con se stesso, se ne frega degli altri, è lui che ha un bisogno bestiale di non arrivare mai. Questa composizione nasce probabilmente per non finire mai. Lo si sente, perché il compositore fatica anch’esso a svegliarsi, a passare all’allegretto (in re bemolle maggiore).

Eccolo allora trasparire il bel satellite, e un gioviale risveglio si appropria di chi ascolta, l’esecutore non ha molto da fare se non seguire lo spartito e interpretare le voglie dell’autore: vincere la fiacchezza, abbattere la solennità del momento ultimo, la stasi dell’adagio sostenuto si va via via a placare, e sopravviene una gioia malinconica. Purtroppo, per ragioni di spazio fisico, il vinile in questione riporta il terzo movimento nel lato B. Così il passaggio al presto agitato si traduce anche in uno sforzo, di chi ascolta, a spezzare l’incantesimo alzandosi e voltando la faccia del disco (gioie e dolori dei vinili). Scopriremo tutto un altro pezzo. Beethoven gioca sempre molto sull’attesa, sui crescendo in evoluzione sui tasti sinistri del piano, mentre con gli alti detta il senso della sonata e plasma la sua forma come un tornitore fa col suo vaso d’argilla. Sono i momenti di più alto spessore, nel senso della pienezza. Lasciamo stare gli arresti repentini, ma, come non apprezzare in fondo anche le variazioni di sensibilità, dal forte al piano e viceversa? Sono degli elastici che trovano l’estremo compimento nell’ultimo secondo di brano, una morte repentina del pezzo che lascia senza fiato.

Torniamo ancora più indietro nel tempo e Adolf Drescher ci interpreta la Sonata per pianoforte n. 8 Op. 13, anche nota con il titolo di Patetica. Composta tra il 1798 e il 1799, questa sonata fu dedicata dal compositore al principe Karl von Lichnowsky, e si situa in uno dei momenti cardine della carriera di Beethoven.

Consta di tre movimenti, di cui il primo è un Grave – Allegro di molto e con brio. Rispetto al Chiaro di Luna, torniamo dunque all’interno del classico standard per sonate. L’attacco parte forte, ci si adagia però subito su un ritmo crescente in levare che scandisce ogni ritorno ai continui fraseggi in giustapposizione tra una sequenza e l’altra. Dopo poco più di un minuto arriva il tema base, quello che caratterizza la sonata, è una melodia patetica, per l’appunto, perché vorrebbe essere più allegra, più fantastica, ma si trova a precipitare in un dramma vorticoso. Sono tanti cerchi concentrici sempre più ampi, più distanti tra loro. Ma la scelta dell’armonia e del ritmo sono quanto di più geniale poteva fuoriuscire dalla testa di Beethoven. Si sale così a una più alta dose di nevrosi e psichedelìa, per poi andare a riprendere la retta via del tema iniziale, mai banale e mai noioso al suo ripetersi. Meravigliose sono le parti basse, che scandiscono i momenti, un utilizzo del pedale che regala profondità e forza all’assieme.

Il secondo movimento è la melancolia fatta in musica, passaggi che col senno di poi sono stati ripresi dai più grandi artisti della musica del ’900, non solo quella classica, anzi. Ci sono qui una serie di accorgimenti tecnici che non sto a spiegare, ma si percepiscono dei passaggi di scala atipici, che rendono la sequenza appena spigolosa all’orecchio, quasi ci si aspettasse altre tonalità. Alcuni diminuiti che fungono a servire l’assist alla chiusura della battuta, quanto distanzia anche Beethoven da Mozart nelle scelte stilistiche e compositive. Il tema si aggroviglia nella parte centrale, per poi ricostituirsi in una tonalità più alta, è come un ascendere in cielo e sistemarsi su una nuvola.

La quiete dell’etere contrasta però con la frenesia della vita metropolitana, della vita di corte dell’epoca. Il terzo movimento non tradisce la sua denominazione e irrompe a svegliare il dolce sonno della notte. Il palazzo vive i suoi giorni, ci sono le ancelle, i lacchè, le dame di corte, il re e la regina. È un via vai continuo di persone di cartone che si incrociano e non si fermano mai. Ciò che caratterizza questo movimento è la velocità, più alta di tutte le altre sezioni. Emerge allora la propensione di Beethoven nel cercare il giusto mezzo per alternare battute veloci e lente, una caratteristica tipica poi della sonata per pianoforte, che Beethoven dimostra qui di rispettare con doverosa riverenza.



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