Come si sentiva Gesù quel giorno, nelle fatidiche ore che precedettero la sua agonia? Cosa provò quando la folla scelse – per acclamazione, fra l’altro – al suo posto Barabba, un brigante, «un prigioniero famoso» (Mt. 27,16)? Prevalse in lui l’amarezza oppure il senso d’impotenza rispetto ad un destino che già ben conosceva? Nessuno può dirlo. Probabilmente solo, si sentì solo. Profondamente solo. Solo come può sentirsi un condannato alla fine di un processo dove tutto, per via di un irripetibile paradosso, è stato tutto giusto e tutto ingiusto.
Giusto, tutto giusto formalmente. Niente da eccepire. Infatti con Gesù – osservava acutamente Piero Pajardi (1926-1994), studioso rimasto quasi vent’ anni ai vertici della magistratura milanese come Presidente prima del Tribunale e poi della Corte d’Appello – furono «legittime l’accusa come la condanna come legittimo il processo davanti al Gran Sinedrio. Legittima la richiesta dell’”exequatur” nonché la sua concessione, così come legittimo il processo davanti a Pilato» (Il Processo di Gesù, Giuffré 1994, p. 118).
Ingiusto, tutto ingiusto umanamente. Un uomo innocente torturato e condannato a morte. Ma soprattutto, dicevamo, solo. Lasciato solo. Solo davanti a gente che lo rinnegava o che lo odiava; che faceva finta di non conoscerlo o che diceva di conoscerlo fin troppo bene. Un po’ – se ci pensiamo – come oggi, con Gesù e la Sua Sposa rinnegati o detestati, evitati oppure presi di mira. Ne è passato di tempo, da quel giorno, ma è ancora un continuo ripetersi di quel che accadde; sta a noi scegliere che fare. Se lavarcene le mani, se prendere la nostra croce oppure se urlare il nome sbagliato, lo stesso di tutti gli altri. Il più comodo.