"Per fortuna le chiamano "cee"!" disse Cecco estraendo ancora una volta la cerchiaia malinconicamente vuota.
"Mi pare che lo sappiano di dove passare!" disse ancora facendo un verso poco riguardoso all'indirizzo delle invisibile anguille.
L'aringa e le cipolle non ne volevano sapere d'andarsene al loro destino: s'erano incastrate lì, nell'esofago, tra lo stomaco e la gola e facevano fremere il povero Cecco il quale allora raddopiava gli sbracciamenti con la cerchiaia, e la scuoteva e la maltrattava come se la colpa di tutto ciò fosse soltanto sua.
"Ma se stanotte mi va' bene... domani sono bistecche!" diceva tra se; e s'incantava a pensare una apparecchiatura innanzi a lui e quasi gli pareva di sentirne il profumo.
La luna era nascosta da banchi di nuvole sfaldate e basse, ma ci doveva essere del vento lassù perché ogni tanto essa appariva dagli orli grigiastri, faceva l'occhiolino, si specchiava in mille modi sull'acqua e scompariva.
"Se quella lassù se ne stà calma e coperta... stanotte son palanche!..." aveva pensato Cecco di prima sera. "Domani è facile che ci scappi anche un polletto."
Poi col passare delle ore, era sceso a più miti pretese. [...]
Purtroppo il tempo passava e le anguille continuavano a restare invisibili. A causa dell'aringa importuna, Cecco non riusciva a stare fermo più di mezz'ora in un posto, e imprecazioni e sospiri s'intrecciavano ad ogni levata di cerchiaia.
Anche la bistecca ormai si era allontanata dalle sue previsioni per l'indomani.
"Forse du' salsicce co' rapini mi ci incastreranno..." diceva spostando il becco del lume verso il misero brulichio d'argento che si intravedeva nella cassetta.
"Se quella disgraziata là se ne andasse, farei sempre in tempo a far qualcosa!" diceva poi osservando con astio la luna che s'era sciolta dai numerosi lacci che la tenevano ed era quasi libera e piena padrona del cielo. [...]
Ormai l'alba si avvicinava. A occhio Cecco calcolava d'aver preso, si e no, tre etti d'anguille e masticava brontolando l'amaro che lo stomaco, ormai vuoto, gli scioglieva in bocca.
"Bella mi' dormita... bel mi' letto caldo!" cominciò a dire in un impeto di sconforto e, con gli arti anchilosati dal gelo, raccolse cerchiaia, retino e lume, avviandosi verso casa. Pareva un burattino di legno per l'andatura e per il rumore di zoccoli trascinati. Gli omeri avevano ingoiato il collo e l'ombra di lui, allungata nella via, pareva quella di un uomo senza testa.
"Quante ne hai prese?" gli domandò la moglie non appena essa lo avvertì nella stanza.
"Sta zitta... 'un me ne parla'... fammi posto piuttosto... sono assiderato."